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 Oggetto del messaggio: Re: FdL: pensiero e libertà; qui ed ora o no?
Messaggio da leggereInviato: 29/01/2013, 2:51 
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Non concepisco proprio l'io come un poliziotto.
Vediamo.
COSCIENZA. Si ottiene attraverso la conoscenza di sé stessi (Γνῶθι σεαυτόν, visto che ciò che è greco ti piace così tanto :mrgreen: ). Posso scegliere, conosco le cause, i motivi della scelta. Guardo fuori e guardo dentro, valuto attivamente ecc. La conoscenza di sé rimane anche nelle ultime opere di Steiner il fulcro dell'azione antroposofica. Conoscendo me stesso, conosco gli impulsi che mi spingono ad agire. Essi non sono di per sé negativi, tuttavia originariamente saranno comunque tutti egoistici - eventualmente con la retrospinta di un egoismo di specie, come nel sacrificio materno istintivo, diciamo così.
Alla conoscenza di sé va aggiunta la conoscenza del mondo. Nell'azione incontro il mondo, se non lo conosco la mia azione sarà cieca, quanto più lo conosco invece, tanto più avrò coscienza del mondo. Sono i due corni della coscienza.
Quanto, per esempio, alla parte biologica (colore degli occhi, della pelle, ecc.), è chiaro che non influisco su di essa, è cosa data: perciò la considero come parte del mondo. Ma vale anche per la parte vitale, no? (il corpo eterico). E infine posso chiedermi se vale anche per l'astrale o animico. E' vero che lo posso modificare, ma solo attivando qualcos'altro, come il pensiero, il giudizio, la conoscenza: la civiltà umana procedette così. Ora, questo qualcos'altro lo chiamiamo io, o io superiore: lo considererò mondo dato o mia parte libera? Bene, con che cosa possiamo modificare il pensiero? Con il pensare. Dunque il pensiero si autodetermina, ed è libero nell'agire - anche se poi non è lo stesso se lo consideriamo comunque limitato dai suoi strumenti (linguaggio, educazione, persino alimentazione).
CONOSCENZA. Assumo il mondo come determinato. Per conoscerlo devo allora piegare, adattare la mia libertà alla sua non libertà. Io resto libero, ma la conoscenza non lo è ... dunque non si tratta di fare il poliziotto, ma il "sacerdote". Accompagnare me nel santuario del mondo, dove non sono chiamato a modificare le cose agendo su di loro, ma a riceverne gli stimoli che modificano in realtà me stesso. Questo riguarda il pensare, mentre il modificare il mondo riguarda l'agire. Nel mezzo c'è il sentire, per esempio artistico. Esso riguarda l'anima, e mette in movimento anche l'astrale. E' questo il momento in cui l'io (che conosce il mondo senza mettersi in gioco, per così dire, ovvero modifica il mondo trovando in ciò la propria limitatezza, poiché si è messo in gioco pienamente) vive la vera libertà, può creare, ed è come un agire di prova, che non modifica il mondo, ma coglie i modelli di questa modifica e unisce sé a questi modelli. Così l'uomo crea nuovi mondi, possibilmente belli ...

Vi è un esercizio psicoterapeutico che va bene anche in antroposofia. Lo descriverei così: ci si mette davanti a sé stessi (per esempio, ci si può rappresentare sé stessi seduti di fronte a noi: e noi siamo il terapeuta, ovvero l'acquirente - nel senso che dobbiamo valutare quella persona, passatemi questi termini). Poi si descrive quella persona che siamo noi, obiettivamente, oserei dire freddamente e, se serve, crudelmente, comunque in piena verità - e siamo ben in grado di valutare se e quando siamo obiettivi o meno.
La conoscenza di noi stessi che così otteniamo non è quella del poliziotto, o del giudice, che valutano e, appunto, giudicano. Si tratta di una conoscenza il più possibile obiettiva, non esiste maquillage che tenga: se chiedi COME riconoscere? COME non rischiare di fraintendere?, ecco, questa è una risposta. Attenzione, non è una risposta totalmente scientifica nel senso della scienza "meccanica". E' però una conoscenza obiettiva, anche perché, nota bene, quello che andiamo a conoscere, pur se modellato sulla realtà (sulla nostra realtà) è tuttavia un'immagine, una nostra immagine. Come tale, è oggetto che lo stesso soggetto si crea liberamente (cioè accettando di aderire liberamente alla realtà per conoscerla - dunque NON modificandola - evitando invece di alterarla con i moti dell'anima che offuscano la conoscenza alterando il giudizio).
Questo dovrebbe essere il discrimine per riconoscere CHI ha formulato i pensieri, o le deliberazioni.

robinson ha scritto:
Ma dal momento che io parto aprioristicamente con una sorta di giudizio, ecco che la "consapevolezza" (vista interiore su di me) viene a perdersi (come posso realmente permettermi di vedere ciò che è soggetto a giudizio morale?)e quel che emerge è la "coscienza" da cui farò scaturire i miei atti.
Con il risultato che, come quasi sempre capita, sarà il mio astrale o la mia necessità a dare luogo ai miei atti i quali, con percorso a ritroso, saranno dettati dalla mia coscienza, dal mio IO.
Nulla è cambiato, tranne un fatto; che per darci una patente di giudizio morale abbiamo affogato la visione di noi, la consapevolezza.

No, non parto con un giudizio a priori, viceversa, do fiducia alla mia ricerca, che essendo una conoscenza non deve modificare il proprio oggetto: questo avverrà semmai in un secondo tempo, con i criteri che mi sarò creato agendo liberamente su un oggetto "non libero", nel senso che, per conoscerlo, devo fissarne le caratteristiche. Tu, semplicemente, pensi che il vero motivo sia nell'impulso, e che la coscienza agisca come una forma di razionalizzazione a posteriori dell'impulso. Ma è per quello che ho parlato di sacrificio, perché vi è una parte di sé che, di volta in volta, viene messa sotto osservazione oggettiva, poi giudicata e rimessa in questione. Come i bambini a scuola sacrificano la loro libertà e il loro corpo muovendosi meno e rimanendo attenti a cose non direttamente attinenti il corpo, così il conoscere sé stessi (v. esercizio di cui qui sopra) ci porta fuori dalla determinazione temporale e spaziale, come dire dall'impulso, che viene sacrificata, allo scopo di progredire nella conoscenza. Come risultato di tale conoscenza, si andrà poi a correggere l'azione, processo infinito del vivere, non atto di poliziotto, ma di sacerdote, medico, padre.


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 Oggetto del messaggio: Re: FdL: pensiero e libertà; qui ed ora o no?
Messaggio da leggereInviato: 30/01/2013, 10:04 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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30 gennaio 2013:
E va bene; mi "costringi", con questo tuo bellissimo intervento (veramente! grazie), a pensare = riflettere
(invece magari di dedicarmi all' osservazione delle belle ragazze incontrate in questa trasferta alle Canarie).
E intanto mi rendo conto che c'è appunto un pensare = riflettere,
come c'è un pensare = andare nei ricordi o nelle proiezioni future,
come c'è un pensare che può portarci a vedere ogni aspetto (e non uno solo, come dato in una necessità) come ad esempio tutte le possibilità che vi sono (es. un triangolo),
ed ancora un pensare che emerge dalla consapevolezza o da una visione sempre più chiara.
Ecco quindi le riflessioni alle quali mi hai costretto col tuo bellissimo intervento, che ho apprezzato veramente.
La consapevolezza determina un pensiero ed anche una risoluzione. Una miglior consapevolezza, una visione sempre più chiara, può determinare un diverso pensiero e differenti risoluzioni.
Pertanto, c'è pensiero e pensiero.
Quello che nasce da ulteriore consapevolezza è un pensiero che non travalica la nostra necessità, ma la trasforma, la ridisegna; viene reinventata e ri-creata una "nuova" necessità.
Come vedi nulla viene ad essere veramente perduto così (o sacrificato). Non c'è più una scelta per cui qualcosa va "persa". Non viene in realtà mai perso nulla! Si appalesa ciò che riemerge in nuova forma.
E' chiaro che tutti noi sperimentiamo la "scelta" di non essere noi stessi (in quanto necessità); siamo essere razionali, ubbidienti alle leggi (anche se talora non sono così razionali anche), talora emerge un super-Ego o un Genitore interiore che ci incanala; tuttavia non è questa la risposta evolutiva; questo già mi succede (non do' libero sfogo al mio astrale, altrimenti mi leggeresti già sui giornali, e non per aver ammazzato qualcuno ;-) ).
Tuttavia vorrei poter avere un "centro" direzionale interiore che possa incanalare tutto il mio essere (necessità comprese); essere un unico che NON sceglie, ma sceglie solo se stesso.
In questo senso non concepisco parole come "sacrificio", perché non c'è nulla che venga buttato via o inespresso. Non qualcosa che si fa emergere a scapito di un' altra.
Forse allora la parola "trasformo" è più appropriata di "sacrificio", in questo senso.
perché, CHI sacrifica COSA? L' idea del poliziotto con certe immagini o parole riaffiora.
Con "trasformo" non si butta via niente.
E posso accettare che qualcosa, tra l' altro, ancora non sia suscettibile di trasformazione, ma chi lo può dire? Magari domani sarà diverso da oggi, ma oggi faccio i conti con questo essere, con questa
necessità, con questa (limitata) consapevolezza, e con questi pensieri. O questo o la "scelta" che qualcun altro (per foruna anche) fa per me: il mio genitore o Dio interiore? una legge? la mia coscienza?
Non è questa la nostra esperienza di tutti i giorni?
Dovrò dunque vergognarmi di essere "uomo" e non Dio?
Ma so' che questa necessità non è FISSATA, ma MUTEVOLE.
Ed è il pensiero che emerge da "nuova" consapevolezza che traina la trasformazione; così diverso da qualsiasi altro pensiero che mi "ri-vede" in varie modalità ma che non coglie l' unicum che sono.
C'è quindi una certa relazione tra lo stato di necessità e la libertà nell' uomo. Se così non fosse, se solo di necessità immutabili si trattasse, allora Spinoza lo butterei nel pattume. Certo che c'è una relazione tra la necessità e la libertà, nell' uomo! Ma uno non può mai fare a meno dell' altro. La necessità è il nostro punto fenomenico da cui partire (sempre a vederlo) per la libertà. E grazie a quest' ultima la necessità si ri-crea, si trasforma appunto.
solo un pensare "accanto" al fenomeno/necessità quale siamo può trasformare senza perdere.
In questo senso non parlerei allora di "sacrificio" della necessità, ma di "RESURREZIONE" della necessità! non di un suo "accantonamento" ma di una sua trasformazione.
Non è mai una libertà (il pensiero) che, rifuggendo la nostra fenomenica, mi possa trasformare: potrà al massimo fraintenderci o illuderci o imporsi!
Trasformare senza perdere alcunchè di noi stessi.
Come Spinoza, vedo necessità e libertà non come due poli antagonisti e opposti, ma come un continuum e come due facce della stessa medaglia che l' uomo è.
E' vero: il pensiero che emerge dalla consapevolezza mi libera; mi libera dalla stretta necessità in cui siamo, la "svincola", le permette di variare. Ma questa libertà, senza substrato, senza sostanza, a che cosa si riddurrebbe?

Nel pensare c'è Universalità e c'è Libertà: ok.
La' incontro TUTTE le infinite possibilità ad esempio che si danno al triangolo/uomo; lì incontro ogni infinita varietà di forme triangolo; nel pensare ci sono tutti i triangoli del mondo: quindi, libertà e universalità; il "mio" triangolo (che sono, per necessità) incontra tutti i triangoli possibili del mondo.
Ma questa libertà ha un solo, un unico punto di partenza, mai perso; ed è "quel" triangolo che io sono (necessità). Non può esserci libertà (universalità delle forme dei triangoli) senza quel punto di partenza, di necessità. E' da lì che mi muovo per approdare ad una nuova forma di triangolo, ossia di ulteriore necessità. La libertà ha la sua partenza ed il suo approdo nella nostra "carne".
Da una necessità partiamo e ad una necessità arriviamo; non è possibile veramente trascendere la nostra necessità, non è possibile eliminarla, cancellarla, misconoscerla, sacrificarla anche, accantonarla, sostituirla.
Trasformare significa permettere che quella ghianda diventi quercia: non un noce o un per, e che neppure sia condannata a restare solo una ghianda.
E in tutto ciò non c'è neppure una vera scelta; così è: possiamo solo vedere ciò o voler non vedere ciò.
(beninteso, questo secondo il mio modo di vedere le cose a questo riguardo, magari sbagliato).

Vado a concludere allora (domani sarò... in spiaggia);
E quindi? Come poter veramente permetterci di "vedere"? L' atteggiamento a me pare molto importante; se si tratta di "zavorra" da dover scaricare, a favore di CHI è in grado finalmente di liberarci (l' IO), allora credo che MAI ci sarà veramente possibile avere quello sguardo "pietoso" verso la nostra necessità e quella di ciascun altro uomo. Dobbiamo provare pietà, compassione, comprensione, per le necessità piuttosto che nessuna pietà; d' altra parte però occorrerebbe anche non fraintendere, non giustificare le stesse ma accettare che esse si mostrino per così come sono, senza belletti vari.
Come vedi o non ci sono belletti e le vediamo bene ma ne siamo schifati (i peccati per la Chiesa), le vogliamo cancellare, annullare; oppure ce le teniamo e le giustifichiamo, le imbellettiamo.
Vedere ciò che c'è ma al contempo avendo uno sguardo assolutamente compassionevole: non siamo Dio, siamo uomini! Non dobbiamo nè credere di essere Dio (!) e neppure essere schifati perché siamo uomini. Accettare ciò che siamo: da dove altro si potrà mai partire infatti, o essere?
Accettare ciò che siamo in senso di visione di noi e di pietà, non significa però dar libero sfogo alle necessità; questo lo comprendiamo benissimo. Ma al contempo sento che devo prendermi "cura" di esse; perché è proprio da quell' acqua torbida che può emergere trasformandosi, una nuova necessità, quel daimon che abita non solo la mia mente ma ogni signola cellula del mio corpo.
perché non c'è solo una mente "spirituale" libera, ma c'è anche una mente che vive all' interno di ciascuna mia singola cellula, ed è a quella che io non voglio e non posso rinunciare.


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 Oggetto del messaggio: Re: FdL: pensiero e libertà; qui ed ora o no?
Messaggio da leggereInviato: 31/01/2013, 1:48 
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Nel rispondere, mi rendo conto che non è facile rimanere entro i limiti della FdL, e così probabilmente passerò in ambito antroposofia più d'una volta. Pazienza.

La maggior parte delle cose che dici mi sembra non contraddica affatto quanto ho scritto, dunque OK. Se quello che chiamo sacrificio, vedendo io la scena del padre-io superiore che educa il figlio, più mosso da necessità, tu lo chiami trasformazione e resurrezione, cioè guardando la parte che si evolve, credo semplicemente che io sottolineo quanto viene lasciato, tu sottolinei quanto viene conservato.
Si tratta dunque della metamorfosi: nella metamorfosi il solo modo per mantenere l'identità è trasformarsi, perdere un bozzolo ormai desueto e insieme assumere una forma nuova conservando la stessa identità. E ho detto tutto ;) . Ogni volta che apprendo qualcosa, per esempio questi maledetti sistemi Vista, Windows 7, Windows 8 e via maialando, per entrare nel nuovo devo abbandonare parte del vecchio (tu mi dirai che il DOS è alla base di tutti e si conserva, ma 1) io intendo le differenze incompatibili tra un sistema e l'altro 2) comunque si tratta di cose meccaniche e non vive 3) e poi, è solo un esempio :) )

Ammetterai comunque che in ogni metamorfosi vi è qualcosa di materiale che va lasciato, perso. Però la parte più nobile (certo, si può dire!) non solo si conserva, ma si innesta nel decorso del tempo, rispondendo appunto alle nuove necessità provenienti dall'esterno, certo, ma anche dall'interno, come nella mitosi delle cellule (a meno di non considerare questo interno come un esterno, perché assai necessitato, v. post precedenti).
Cita:
In questo senso non concepisco parole come "sacrificio", perché non c'è nulla che venga buttato via o inespresso. Non qualcosa che si fa emergere a scapito di un' altra.
Sorry, mi sembra di aver mostrato che qualcosa si perde, ed è proprio tentazione materialistica, per dir così, aggrapparsi al conservare proprio tutto. (Perdersi per ritrovarsi, dice Steiner nel Calendario dell'anima). Non dico una banalità se ricordo che il più forte freno al cambiamento (alla metamorfosi, all'abbandonare qualcosa) è la paura. Che, appunto, paralizza = non butta via niente, ma niente prende di nuovo.
Di paure inconscie siamo pieni zeppi, tutti.

Invece, il passare da necessità a nuova necessità tramite la libertà non contraddice il concetto di metamorfosi. Se poi proviamo a considerare ogni necessità come una opportunità, quindi un aumento delle possibilità, ergo della libertà, allora si esce felicemente dal problema. In fin dei conti, un pittore senza colori e pennello, un atleta senza competitori, sono degli infelici, degli irrealizzati. Non per nulla sei arrivato al concetto di resurrezione, che non è poca cosa. Lo paragonerei al riciclo degli oggetti in altro ambito, come le sedie fatte di cartoni usati :? .
Quando poi concludi
Cita:
Ma questa libertà, senza substrato, senza sostanza, a che cosa si riddurrebbe?
hai appunto centrato la questione del senso della vita: per come la vedo io, siamo come giardinieri o contadini (o anche dei soldati) che lavorano alla periferia dell'impero, liberi nell'iniziativa ma anche rispettosi degli scopi e delle indicazioni che ci vengono dal centro - anche perché è nel nostro interesse: è ben il centro che dà la strategia generale, per la quale ci siamo svegliati un giorno presso gli indifesi confini di cui sopra, ove le incursioni di quelli "di là" sono all'ordine del giorno e inevitabili. E tuttavia il nostro lavoro è indispensabile proprio all'impero, che senza di noi, o se noi fallissimo, imploderebbe, fregando anche noi. Detto altrimenti, è proprio la necessità in cui giaciamo il punto di partenza per la nostra opera. E qui siamo d'accordo.

Steiner esprime qualcosa di simile dicendo che l'uomo è cittadino di due mondi. E che sono dei ritardi nell'evoluzione quelli che hanno reso possibile la libertà: fin che tutto andava "a orologio", nel seno degli dei, libertà non serviva e non c'era. La cacciata dal Paradiso esprime proprio questo: sesso, dolore, morte, polmoni, arti (gli arti) sorgono insieme. In questo senso ...
Cita:
... questa libertà ha un solo, un unico punto di partenza, mai perso; ed è "quel" triangolo che io sono (necessità). Non può esserci libertà (universalità delle forme dei triangoli) senza quel punto di partenza, di necessità. E' da lì che mi muovo per approdare ad una nuova forma di triangolo, ossia di ulteriore necessità. La libertà ha la sua partenza ed il suo approdo nella nostra "carne".
.

Buone vacanze!


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 Oggetto del messaggio: Re: FdL: pensiero e libertà; qui ed ora o no?
Messaggio da leggereInviato: 31/01/2013, 2:47 
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Pierfrancesco,
la P.di F. di cui tu parli, con le correnti del passato e del futuro che si incontrano nel presente, è stata per un momento messa, per così dire, da parte. Ora, però, vorrei notare in sintesi che
il passato è nella necessità, così come il mondo materiale lo è; non posso più cambiarlo, posso solo elaborarlo entro di me, magari rendendolo più fertile; il passato mi condiziona così come la materia, ambedue posso però elaborarli con la riflessione nel presente;
il futuro è nella molteplicità di possibilità (mentre il passato è uno!): anche su di esso posso influire riflettendo. Posso capire che l'azione A tende a B, allora scelgo C ecc. Ma se non rifletto, la mia scelta non è libera, bensì automatica, animale. E se è automatica è, salvo eccezioni, una sola, determinata dalla "forma" stessa dell'animale. In questo senso si tratta non di un futuro, ma di un "passato", in quanto non si dà scelta alcuna.

Per fare un esempio terra terra, chi vede in differita un incontro di football sapendo già com'è andata a finire, si diverte meno di chi non conosce il risultato. Sapere prima, cioè, toglie la libertà non a me, ma ai giocatori che vedo! Magari, per passarmela meglio, cercherò di portare maggiore interesse verso la qualità dei gesti o l'eleganza o abilità dei giocatori, ma non è la stessa cosa: così facendo li considero "esteticamente", in una specie di presente che è fittizio. E anche se in realtà si può ammirare una partita come si ammira un quadro, in un continuo presente che è proprio quello del sentire, del riflettere nel presente, per il normale tifoso conta che le possibilità sussistano. Qualcuno deve avergli detto come esse siano legate alla forza dell'io :mrgreen: .

Nelle nostre discussioni di FdL, quando il dilemma è "ma come faccio ad essere sicuro che la mia "scelta" non sia invece determinata?", non sarà dunque la sola molteplicità di scelte a permettermi di dichiararmi libero. Anche l'animale potrebbe fare altrimenti da quanto fa. Ma non lo fa. Due uomini, dieci uomini, mille avranno tutti soluzioni e scelte diverse, ma, attenzione, tanto più quanto meno la scelta si ponga su un piano determinato dalla costituzione fisico-materiale. Allora lo stesso rumore improvviso otterrà effetti simili per molti individui, ma nello scrivere un compito in classe, opera meno legata al materiale, ognuno agirà diversamente, cogliendo linee diverse dalla corrente che viene dal futuro.

Se dunque consideri che in certi ambiti la risposta è un riflesso, in altri una scelta vera e propria, vedi bene come la libertà sia maggiore quanto meno materiale sia il campo d'azione. Poi, oltre il limite del terreno, essa diviene luciferico arbitrio, vorrei dire che diviene noiosa, e lo diventa perché il senso della nostra vita sta nel partecipare coscienti ad ambedue i mondi.

(Vi è poi una caricatura della libertà, che è la follia. Essa è una caricatura proprio perché non tiene conto dell'aspetto necessità. Ma vi è anche una caricatura della necessità, ed è la disperazione, quando l'uomo si sente impedito a qualunque scelta, quando non si è e non ci si sente più uomini. Credo che la droga, ogni droga, permetta di non percepire questo dilemma: essa dà una follia provvisoria onde non subire la schiacciante, dolorosa, necessità. Si crea, è vero, comunque un equilibrio tra i due opposti: però fuori dell'uomo, nel non esserci.)


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 Oggetto del messaggio: Re: FdL: pensiero e libertà; qui ed ora o no?
Messaggio da leggereInviato: 31/01/2013, 9:32 

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Ti rispondo
sul punto sul quale sento una sorta di fraintendimento ancora.

Sono chiaro:
1) mi interessa una cosa (astrale) e tuttavia la sacrifico (IO).
oppure
2) quella cosa NON mi interessa più, e pertanto NON la sacrifico.
Sono "cambiato", non devo rinunciare (come nel primo caso) a qualcosa di me; tutto viene salvaguardato da una diversa scelta che non sacrifica nulla di ciò che sono (che non è cristallizzato, certo).

ORA, a me sembrava che tu intendessi il punto 1; e a me quel modo di concepire sta' stretto. magari avevo capito male io? e al riguardo ho voluto opporti la possibilità 2.

ORA, è interessante capire la "modalità" che dà luogo al caso 1, e alla diversa modalità che dà luogo al caso 2.
Ho espresso il dubbio che una relazione "necessità (astrale ecc...) versus IO"
(che ho espresso del CHI comanda qua? o il poliziotto) porta alla scelta 1; mentre un IO che trasforma la necessità (che non viene neppure mai persa) l'ho concretizzata (per non restare in ambito di parole che si fa fatica poi a concretizzare) in una capacità di poter essere ulteriormente consapevoli, di chiarire sempre meglio la visione (amorevole, e non da buco della serratura o da poliziotto: "guarda come fai schifo").
Solo un IO quindi che non prende la decisione, ma che accoglie ed accompagna la necessità.
Forse un giorno questo lavoro porterà a decisioni diverse, ma io non le considero più libere, ma solo più piene, più realizzate. perché espresse sempre a partire ANCHE da un ambito di necessità e NON solo di puro pensiero, disancorato.

Poi, c'è tutto il capitolo (immenso), in cui ulteriormente l' astrale o anche il pensiero stesso, sono su una lunghezza d' onda e invece io poi prendo decisioni diverse.
Questo è ovvio che sia così; posso benissimo razionalmente decidere di non bere, per il bene della altre persone;
ma la vittoria sarà quando eventualmente scoprirò che il non bere non sarà più un sacrificio, ma una esigenza ormai superata.
Non sarò allora "libero", in quanto sarò ancora nelle mie necessità, altre necessità, diverse; sarò più pieno, più coerente, meno contraddittorio...
se prima ero "non libero" nel bere, ora magari sarò "non libero" nel mio bisogno di esprimermi in altro modo, ad esempio con la pittura... e non sarà lo stesso che con la musica o l' archeologia ecc... perché non sarà mai solo una scelta "mentale", di pensiero, ma che coinvolge tutto me stesso; è il mio daimon che si svela sempre di più. Non sarò più libero, ma sarò più pieno, più integro interiormente.


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 Oggetto del messaggio: Re: FdL: pensiero e libertà; qui ed ora o no?
Messaggio da leggereInviato: 01/02/2013, 3:52 
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Mio caro,
angeli non siamo proprio :mrgreen:

rinunciamo pure a trattare le epoche future come previste/descritte dall'antroposofia (Giove, Venere, Vulcano ...). Epoche in cui non avremo più il corpo fisico. Ecc. ecc.

Mettiamoci al livello che lo stesso Steiner pone in FdL. Praticamente di sola filosofia.
Quale corpo fisico vivente ho dei bisogni, e sempre li avrò. Essi sono una necessità che sempre mi condizionerà, epperò sono al tempo stesso la base vivente sulla quale io posso costruire tutto, in questo mondo, compresa la mia libertà. L'io (mettiamoci solo questo pizzico di antroposofia) veglia su tutto ciò. Esso usa mezzi assolutamente di un livello superiore ed estraneo rispetto al biologico: pensiero e linguaggio, e poi scrittura ecc.
Lo stesso tipo di evoluzione che vivo nella biografia lo posso vedere nel bambino, nell'adolescente: cresce fisicamente, ma anche cresce mentalmente e psicologicamente: questo, per tutta la vita. Egli conquista dunque questo ambito in cui io sono più libero, diciamo intanto, e lo sono se non altro per la minore materialità del campo d'azione. E perché devo essere io stesso che mi attivo nel pensare, dunque sperimento in me stesso la scelta tra farlo e non farlo. Se uno è prigioniero di catene, può liberarsi, magari. Ma se è prigioniero nell'animo, non si riscatterà, da solo. E' una prigione, se non più dolorosa, certo più resistente ai cambiamenti.

Poi questo pensare si pone in relazione con le necessità, con il fisico ecc. e vuole fargli da maestro. Le funzioni di questo maestro svariano dall'amorevole "perdono" alla severa (auto)critica, cioè c'è sia l' 1) che il 2) di cui parli tu. E non dimentichiamo che, per educare l'allievo, il maestro deve anche ascoltarlo (cioè modellare a partire dal sentire dell'allievo stesso).
Fin qua non mi sembra che ci sia un muro tra i nostri post.

Ma poi tu:
Cita:
Solo un IO quindi che non prende la decisione, ma che accoglie ed accompagna la necessità. Forse un giorno questo lavoro porterà a decisioni diverse, ma io non le considero più libere, ma solo più piene, più realizzate. perché espresse sempre a partire ANCHE da un ambito di necessità e NON solo di puro pensiero, disancorato.

Questo è il punto. Se l'uomo "appartiene ai due mondi" è ovvio che sia così, proprio come è ovvio che sia libero nel pensare ma non nel colore dei capelli. E' una banale conseguenza del fatto di essere incarnato, cioè di avere nella propria costituzione la materia, che per sé non è libera. Se l'io decidesse senza considerare le necessità, difficilmente avrebbe modo di modificare il reale (Steiner poi mostrerà nel collegamento io-calore-sangue-fisico-azione i modi necessari per trasmettere questo lavoro al mondo: non certo come il corpo-anima dei cattolici, che non si capisce come influiscano tra di loro).

Non posso scegliere che un quadrato abbia tre lati (per la contraddizion che no'l consente...): è questo un limite alla mia libertà o un necessario supporto ad essa? Dunque i limiti li trovo sia in alto che in basso, ma sono limiti che mi permettono di mettere in atto la mia libertà. In questo senso vi è una parentela tra i calcoli trigonometrici, che sono più una scoperta che una invenzione, e la mia autoeducazione, che è più un fare che un programmare. I primi (i calcoli) debbo sforzarmi (= agire sul pensare) onde capirli, comprendendoli mi educo nell'anima e nel pensiero. La seconda (l'autoeducazione) mi vede impegnato a "far comprendere" alla mia parte meno libera quanto ho pensato e deciso. Nei due casi possono esservi intoppi.

Cita:
posso benissimo razionalmente decidere di non bere, per il bene della altre persone;
ma la vittoria sarà quando eventualmente scoprirò che il non bere non sarà più un sacrificio, ma una esigenza ormai superata.
questo è appunto il percorso "educativo".

Cita:
Non sarò allora "libero", in quanto sarò ancora nelle mie necessità, altre necessità, diverse; sarò più pieno, più coerente, meno contraddittorio...
se prima ero "non libero" nel bere, ora magari sarò "non libero" nel mio bisogno di esprimermi in altro modo, ad esempio con la pittura... e non sarà lo stesso che con la musica o l' archeologia ecc... perché non sarà mai solo una scelta "mentale", di pensiero, ma che coinvolge tutto me stesso; è il mio daimon che si svela sempre di più. Non sarò più libero, ma sarò più pieno, più integro interiormente.
Che vuol dire "non sarò libero"? Sarò più coerente, come dici, ma ciò avviene per la libera scelta di autoeducarmi. Ciò potrà portarmi a necessità diverse, certo, ma occorre vedere che queste necessità sono meno cogenti, che vi è stato un progresso; e se anche interiormente cogenti, come una missione, ciò vuol dire che nascono dal mio io più vero, avendo interpretato correttamente i segnali della mia vita.

Tant'è vero che, assai più tardi, trattando di libertà, fraternità e uguaglianza Steiner pone la libertà nel solo ambito spirituale, nel pensiero, e nell'intelletto, linguaggio ecc. Fuori da quell'ambito, per es. nell'economia, la libertà fa danni, è asociale, oggi lo vediamo bene. Siccome poi l'uguaglianza riguarda l'aspetto giuridico (pari opportunità e dignità, e diritti, e trattamento legale), in esso la libertà intesa come libertà da norme sociali fa danni, almeno nel nostro mondo di oggi. L'uguaglianza nel pensiero corrisponderebbe alla cappa di piombo di una ideologia totalitaria, più o meno come nel mondo della medicina ufficiale, e in genere degli orribili Ordini Professionali delle varie categorie.


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 Oggetto del messaggio: Re: FdL: pensiero e libertà; qui ed ora o no?
Messaggio da leggereInviato: 01/02/2013, 11:57 

Iscritto il: 12/09/2011, 8:29
Messaggi: 68
Località: Roma
robinson ha scritto:
Accettare ciò che siamo in senso di visione di noi e di pietà, non significa però dar libero sfogo alle necessità; questo lo comprendiamo benissimo. Ma al contempo sento che devo prendermi "cura" di esse; perché è proprio da quell' acqua torbida che può emergere trasformandosi, una nuova necessità, quel daimon che abita non solo la mia mente ma ogni signola cellula del mio corpo.
perché non c'è solo una mente "spirituale" libera, ma c'è anche una mente che vive all' interno di ciascuna mia singola cellula, ed è a quella che io non voglio e non posso rinunciare.


Ciao Robinson, anche io condivido in larga parte il tuo discorso, ma a quello manca una decisione, una scelta. La mente delle nostre cellule, è una mente superiore alla nostra coscienza e le necesstà che nascono dall'abitare in un corpo fisico non rientrano in quello che si può considerare il male.
robinson ha scritto:
Dovrò dunque vergognarmi di essere "uomo" e non Dio?

Il male è l'inversione delle priorità: la mente umana, la nostra cosicenza normale, che decide che la cellula ha diritto di comandare sull'uomo (inteso come Io), introducendo una confusione che scompagina l'architettura stessa dell'umano, così come pensata da Gerarchie superiori all'uomo stesso.

Così il "sacrificio", che è proprio quella trasformazione a cui alludevi, nasce dal riconoscere con un "atto libero", "il proprio grado e la necessità del grado che [ci] sovrasta".

Stamattina, leggendo il capitolo "Essenza dello Yoga" del libro "Dallo Yoga alla Rosacroce": l'autobiografia di Massimo Scaligero, ho creduto opportuno estrapolare questo brano sull'obbedienza. Devo dire che il tema dell'autorità, da me è stato sempre molto osteggiato, fino al punto di rifiutare la prosecuzione di un percorso cattolico che seguivo da molti anni, dopo essermi scontrato con tutti i rapprensentanti dell'autorità religiosa della mia vecchia parrocchia. E proprio perché a quel tempo sono fuggito, non risolvendo il mio karma, che oggi apprezzo moltissimo le seguenti parole di Scaligero. Qui Scaligero parla dello Yoga, ma secondo me è possibile sostituire quella parola, con quella a cui vogliamo dare l'autorità nella nostra vicenda terrena:


Il pericolo della presente civiltà è la perdita della conoscenza dell'Ordine gerarchico, che è condizione della restituzione della realtà umana: tutti gli attuali problemi umani vi sono connessi, dallo spirituale all'economico. Non v'è costruzione che non implichi l'obbedienza di un elemento inferiore a un elemento superiore, in quanto il superiore è lo stato potenziale di elevazione dell'inferiore, la cui correlazione è l'intelligenza del valore della dipendenza e dell'obbedienza, come di un veicolo del fluire della forza, onde si attua la vera uguaglianza di tutti dinanzi a una legge più alta, superiore al semplicemente umano: i segni della quale si colgono, come in simboli, nei fenomeni di ciò che obiettivamente trascende l'attuale umano: la nascita, la vita, il sonno, il dolore, la morte.

La correlaizone con le Gerarchie, che un tempo fu missione dello Yoga, oggi è missione degli asceti della Rosacroce, avversata dall'attuale funzione occulta dello Yoga e in particolare dalle deviazioni delle correnti estremo-orientali, Taoismo e Buddismo Zen. Ogni opposizione al sentiero della Rosacroce, opera indirettamente come un'apertura al potere del Caos, i cui segni terrestri sono la rivolta contro ogni forma di ordine e di gerarchia, onde con tragica ottusità viene scambiato per potere d'oppressione il potere dello Spirito che organizza la Materia. In questa organizzazione che patentemente va dal minerale, al vegetale, all'animale, sino all'umano, si coglie l'azione delle Gerarchie, la presenza della forza ordinatrice che dall'alto agisce verso il basso, onde la redenzione e la elevazione di ciò che è in basso viene da sua dipendenza ed obbedienza.

La disciplina, come azione dello Spirito sull'elemento istintivo, prepara il destarsi di una coscienza più alta: la libertà consiste nel conseguimento di una tale coscienza. La dipendenza e l'obbedienza sono funzioni dello Spirito libero: sono un dipendere dal proprio Io, un obbedire al proprio Io. Esse divengono creative, in quanto giungano ad essere espressione dell'atto libero di chi riconosca il proprio grado e la necessità del grado che lo sovrasta. Tale sovrastare non è un opprimere, perché lo Spirito non ha bisogno di opprimere ma di essere, non è costrizione ma presenza strutturante. Certo il caos è necessario al cosmos, in quanto serve al suo giuoco ordinatore, ma in tal senso non può esso determinare le forze della coscienza.

L'epoca reale del male umano è quella in cui le forze dell'Autocoscienza cominciano a operare contro l'ordine cosmico, servendo il caos. Il vero male umano è la dipendenza artificiosa di ciò che è in alto da ciò che è in basso, l'inversione della gerarchia realizzata mediante le forze deviate dell'Autocoscienza: lo spirito libero che venga sopraffatto dall'anima, l'anima che venga sopraffatta dagli istinti, l'Io afferrato al livello sensibile dalle potenze ahrimaniche che gli conferiscono una forza di rivolta contro l'Io superiore. In tale forza di rivolta di ciò che è in basso contro ciò che è in alto, tutti i deboli di volontà e i decandenti psichici trovano a buon mercato un'energia esaltante, che scambiano per il potere dell'Io, ossia contro il vero essere libero. La rivolta del basso contro l'alto, come fenomeno collettivistico, ha solo temporanei momenti di accordo, perché è inevitabile che la continua insorgenza dal basso trovi oppressiva la styruttura formatasi con l'insorgenza precedente, onde finisce col divorare se stessa, sino all'organizzazione ferrea del suo potere di gerarchia capovolta, onde il peggiore assume il comando sugli altri, imponendo la costrizione da cui aveva preso le mosse.

La degenerazione dello Yoga sino alle forme moderne, gradualmente si verificò, allorché esso, obliando l'assunto sacrale originario, cominciò a funzionare come una tecnica per il conseguimento dei poteri estranormali, secondo l'esigenza di un eccentrico egoismo. In realtà, l'assunto dello Yogo originario, in qanto <<congiungimento>> dell'umano con il Superumano, aveva occultamente la funzione di accordo dell'ordine umano con l'Ordine Cosmico tenuto dalle Gerarchie, alla cui forza fluente si deve la gerarchia onde esistono le strutture terrestri, per cui in qualsiasi operare umano, per esempio, lo Spirito dirige il movimento del tronco e delle membra, e solo nel pazzo questi possono insorgere contro lo Spirito. Ritmo e gerarchia tengono l'ordine della natura, in quanto l'uomo mantenga l'accordo con le Gerarchie. Della crisi dell'ordine della natura i segni, di aumentata frequenza, sono le catastrofi naturali, i terremoti, le bufere, le inondazioni, lo scompaginamento del ritmo delle stagioni, ma simultaneamente, su un altro piano, la marcia universale delle nevrosi, della criminalità, della schizzofrenia ideologica, dei monoideismi ossessivi, della incoercibilità attivistico-eversiva e della necessità di un correlativo incessante drogaggio politico, erotico, dialettico.

Ove un simile caos prevalga, occorre dubitare che la missione dell'antico Yoga, di congiungimento dell'umano con le Gerarchie, da secoli entrata in crisi, abbia trovato nei tempi moderni il corrispettivo di una continuità. Esiste bensì la Scienza del Sacro dei nuovi tempi, sia pure non riconosciuta da coloro che credono seguire la Tradizione, ma probabilmente essa non trova gli operatori rituali qualificati per il congiungimento dell'umano con le Gerarchie che sostengono l'intima architettura dell'umano. Tale congiungimento infatti non è decisione umana, ma ciò che viene accordato dai Maestri della Rosacroce ai discepoli realmente consacrati.


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