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 Oggetto del messaggio: Una sintesi: la Filosofia della libertà
Messaggio da leggereInviato: 07/06/2012, 22:47 
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Ritengo opportuno postare anche qui un lavoro che procede nella sezione riservata, in modo che tutti i lettori possano fare proprie considerazioni. Si tratta della sintesi dei capitoli della FdL. Sintesi che vuol solo essere un tentativo, criticabile quanto si vuole, utile per ripassare l'argomento, soprattutto per chi ha già letto il testo, più che per chi non lo conosce.


CAP 1 L'agire umano cosciente

Qui RS affronta l'annoso problema se l'uomo sia veramente libero o invece sottoposto in tutto alla necessità delle leggi naturali, quindi anche nel suo pensare, nel suo agire ecc.
Purtroppo per la cultura moderna sembra prevalere il secondo principio: si presuppone che le cause che determinano i comportamenti umani ci siano sempre, anche quando non evidenti, quindi più sottili. Si tratterebbe solo di scoprirle.
Segue una lunga citazione di Spinoza, che definisce libera una cosa che esiste e agisce determinata solo dalla propria natura e non da qualcos'altro. Pertanto, pur credendo il bimbo di desiderare liberamente il latte, egli è invece spinto da necessità, e generalmente il dominio degli uomini sui propri desideri è troppo debole per definirsi sufficiente ad ottenere la libertà di scelta.

RS trova in questo ragionamento di Spinoza un errore. Sì, il bimbo che brama il latte non è libero, ma nemmeno sa da quali cause venga sospinto. Però in altri casi l'uomo è pure ben cosciente delle cause che lo spingono ad un comportamento. E' dunque ben diverso se io so perché faccio qualcosa o se non lo so. (Su questo punto confuta subito dopo anche Hartmann).
Chiede ora RS: che significa conoscere i motivi del proprio agire? Di solito si distingue tra uomo che conosce (con la ragione) e uomo che agisce (spinto dagli istinti), e così lo si ritiene determinato dal di fuori nell'agire - cioè dagli istinti: ma si tratta della stessa persona: l'uomo che agisce conoscendo.
Il problema è nel fatto che la ragione possa o meno condizionare l'uomo quanto gli istinti. Se ciò fosse, l'uomo non sarebbe libero.

A questo punto cita di nuovo Hartmann, per il quale c'è una possibilità di scelta se fare questo o quello, ma non ha senso chiedersi se la spinta che provoca la scelta sia libera, poiché essa è determinata "dal più forte fra i motivi" (potremmo tradurre paradossalmente questo motivi sia con "scopi", che con "cause": si tratta della somma di condizioni obiettive determinanti in una certa situazione). Questo sarebbe appunto il caso detto prima in cui la ragione condiziona l'uomo quanto gli istinti, e allora non sarei libero.

Invece, quello che importa è proprio come sorga in me una decisione. Certuni paragonano l'uomo all'animale e dicono: l'animale è sì determinato da qualcosa, come la pietra gettata, solo che nell'animale la causa non è visibile ai sensi, e nell'uomo è la stessa cosa. No, dice RS, a differenza dell'animale nell'uomo vi è una scelta cosciente, perché l'uomo è cosciente dei motivi del suo agire. L'attività pensante ci dà dunque la libertà, che non avremmo se non conoscessimo i motivi per cui agiamo in un tal modo: sarebbero istintuali, e non liberi, in tal caso.

Attenzione, non tutto il nostro agire viene dalla ragione. Ma appena al di sopra del puro istinto, ogni nostra azione è compenetrata da pensieri. Il cuore e l'anima possono partecipare, spingere, dare calore, ma non creano i motivi, li accolgono soltanto.
Persino l'amore, al di là del puro istinto sessuale, poggia sulle rappresentazioni che ci facciamo dell'essere amato. La via del cuore passa per la testa.

Insomma: l'agire umano si spiega solo andando a vedere l'origine del pensare.


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 Oggetto del messaggio: CAP 2 L’impulso fondamentale alla scienza.
Messaggio da leggereInviato: 07/06/2012, 22:54 
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CAP 2 L’impulso fondamentale alla scienza.

La natura dà molto all’uomo, ma ancor maggiori sono i suoi desideri (dell’uomo). Questa insoddisfazione avviene anche sul piano intellettuale, e così ad ogni esperienza ci facciamo anche nuove domande. Nel cercare spiegazioni ci contrapponiamo al mondo, vale a dire che ce ne separiamo, proprio a causa di questo uso della coscienza. Tuttavia abbiamo anche la tendenza a riunirci al mondo, comprendendo che ne siamo parte, e in questo consiste l’anelito spirituale dell’umanità. Lo fanno sia la religione, che l’arte e la scienza.
La religione spiega e riunisce attraverso Dio. L’artista, dal canto suo, tenta di riconciliarsi con il mondo. Lo scienziato cerca spiegazioni con le quali riallacciare il nesso con il mondo stesso.

Monismo è la concezione unitaria del mondo. Il Dualismo vede i due mondi separati. Il Dualismo dà maggiore attenzione alla separazione, ma non sa trovare il collegamento, e allora vede sé stesso (l’io) come spirito e il mondo come materia. E questa contrapposizione è nell’uomo stesso, alla fine, che è anche materia.
Il Monismo nega le antitesi: se nega lo spirito stesso diventa materialismo, se viceversa nega la materia diventa spiritualismo. (Una terza via è il darli indissolubili: ma chi identifica spirito e materia, non spiega come questa unità indivisa, che egli presuppone, possa poi manifestarsi nel modo duplice che conosciamo).
Il materialismo attribuisce in pratica alla materia la capacità di pensare! Così sposta solo in avanti la problematica. Lo spiritualismo si contraddice nella materialità dell’uomo stesso, che non è solo io. Né può conoscere il mondo come puro spirito, e neppure agire su di esso, se non appunto tramite la materia, così contraddicendosi. Esso, soprattutto, soffre dell’abbaglio di identificare tutto il mondo spirituale con il solo mondo delle idee (che ne è una parte).

Goethe, lui percepisce sia come l’uomo si contrapponga alla natura, sia come, viceversa, si senta parte di essa. Dobbiamo allora, per ritrovare il nesso, ricercare in noi quell’essere della natura (il Dualismo non lo può fare!). Occorre poter dirsi che non esiste solo l’io, ma che c’è anche qualcosa più di “io”.


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 Oggetto del messaggio: Re: Una sintesi: la Filosofia della libertà
Messaggio da leggereInviato: 11/06/2012, 19:54 
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CAP 3 Il pensare al servizio della comprensione del mondo

Finché mi limito a osservare lo scontro tra due palle da biliardo, non prevedo alcunché, mi limito a seguire passo per passo gli eventi. Se però ci penso sopra mi formo dei concetti (es.: leggi della meccanica) e li sommo all’osservazione. Posso anche non farlo, beninteso, ma se voglio dei concetti lo faccio, e sono io che debbo agire, non le palle. (In seguito si indagherà se questo pensare sia dipendente da necessità o “libero”).

Se formo dei concetti posso però anche dire che cosa succederà anche se non guardo il fenomeno, lo posso prevedere. L’antitesi osservazione\pensiero precede tutte le altre della filosofia, quali idea\volontà, io e non-io ecc. Ed ogni comunicazione concettuale deve servirsi del pensare, che quindi viene prima di quella. Quanto invece all’osservazione, noi siamo fatti così, che quello è il nostro necessario strumento di accesso al mondo esterno. Però possiamo osservare non solo il mondo degli oggetti, ma anche il pensare stesso. In questo caso, tuttavia, c’è una particolarità, una differenza: prima osservo un tavolo e poi ci penso sopra, ma quando osservo il pensare sono in una condizione eccezionale. Nel sentire, per esempio sentire un piacere, tutto mi viene dall’oggetto, mentre per i concetti del pensare mi devo attivare io, eppure non esprimo me stesso come nel piacere. Il pensare si rivolge solo all’oggetto osservato e non alla persona che pensa, questo è il punto. Dunque non vuole dare una relazione tra me e il tavolo, ma solo una conoscenza a proposito del tavolo. Normalmente tralascio la mia persona mentre penso, proprio perché mentre rifletto sull’oggetto io ne sono assorbito. Mentre penso non vedo il mio pensare, che io stesso produco, ma l’oggetto del pensare, che io non produco, e che mi viene dall’osservazione. In effetti, se penso sul mio pensare, posso solo farlo a posteriori, non contemporaneamente al pensare stesso (a meno di non avere due cervelli … dico per scherzo, ma neanche tanto) . Anche se seguo il processo di pensiero di un altro, lo faccio sul dopo-pensiero, sul pensato. (Mi sia permessa una osservazione personale “eretica”: secondo me, se spiego come funziona il pensare, è invece possibile, una volta che io ce l’abbia chiaro, osservarmi nel pensare in funzione, sdoppiarmi – sarebbe comunque una condizione particolare, eccezionale, e non è di questo che qui Steiner tratta).

Similmente, prima, nella Genesi, Dio creò il mondo, e poi lo contemplò. Il pensare deve prima esistere se poi vogliamo osservarlo. Per questo non lo osserviamo nel presente, un po’ come l’occhio non può vedere sé stesso. Sappiamo intimamente come funziona, poiché siamo noi stessi nel pensare che colleghiamo i concetti.

Qui non si parla di cervello fisico, la fisiologia del cervello non c’entra, perché non si tratta di un processo di produzione materiale, simile a quelli del fegato o dell’intestino. Il materialista può ben credere che il pensare sia un semplice prodotto materiale “più sottile”, un processo fisiologico, ma semplicemente non sa mettersi in condizione di osservare il pensare: se lo facesse, vedrebbe che si tratta di osservare la propria stessa attività, di cui siamo ben certi. Questa stessa certezza si ritrova nella frase di Cartesio, “penso dunque sono”. Scrive Steiner, però: “La mia ricerca arriva su un terreno solido solo se trovo un oggetto per il quale io possa ricavare il senso della sua esistenza dall’oggetto medesimo. Tale sono io stesso in quanto pensatore”. Partendo da qui posso interrogarmi anche sull’esistenza del mondo.

Quando osservo il pensare, l’oggetto osservato è qualitativamente uguale all’attività che lo osserva, e così non ci tocca aggiungere nient’altro per osservarlo (mentre quando osservo il mondo vi aggiungo qualcosa di diverso, cioè appunto il pensare). Ma poi, qual è il rapporto tra il mio pensare e l’oggetto osservato? Esisterà un rapporto tra di loro? Solo nel caso del pensare stesso posso sicuramente rispondere di sì. Per qualunque altro oggetto si deve ammettere che esso esiste ed è stato creato senza la nostra partecipazione, e solo così possiamo pensarlo. Ma il pensiero prima lo produciamo, lo creiamo noi stessi, e dopo lo studiamo, sempre noi. Uno potrebbe obiettare che anche il digerire lo produciamo noi prima di studiarlo: ma in questo caso non si tratterebbe di studiarlo, bensì di digerirlo: digerire il digerire. Il digerire non può essere oggetto del digerire, mentre il pensare può essere oggetto del pensare. Le cose le trovo, sono estranee; il pensare lo produco io.

Vi è poi chi trova una differenza tra il pensare sulle esperienze e il pensare-prodotto che poi studiamo, cioè tra un pensare pre-cosciente e un pensare in seguito cosciente. Costoro non considerano che il mio pensare non muta natura per il fatto che io l’osservo. Provenendo da me, e non da altri, io lo conosco in massimo grado. “Io considero tutto il resto del mondo con l’aiuto del pensare. Perché dovrei fare eccezione per il mio pensare?” “Nel pensare abbiamo un principio che esiste per sé stesso. Si cerchi dunque da qui di comprendere il mondo.” “Possiamo afferrare il pensare attraverso il pensare: ma … possiamo afferrare con esso anche qualcosa d’altro?”

(Come si vede, al vecchio problema del “raddoppio del percepito” – come può essere la cosa sia fuori che dentro di me? – Steiner aggiunge questa discriminazione: di ciò che è dentro io sono certo, lo creo io. Per il resto, ora vediamo).

Viene prima il pensare o la coscienza? Molti filosofi rispondono: la coscienza. Steiner risponde: per saperlo ci debbo pensar su … quindi viene prima il pensare! Forse per il supremo creatore viene prima la coscienza, ma non per il filosofo, che non deve creare il mondo, ma comprenderlo. È dunque ben possibile che la coscienza sia nata prima del pensare, ma non certo nell’uomo bensì, eventualmente, solo in Dio.

L’attività del pensare precede sia l’oggetto che il soggetto del pensare: infatti questi sono concetti che si sono formati attraverso il pensare. Ed è dunque dal pensare che si deve partire per spiegare il mondo. Qui Steiner ci dà, di passaggio, una chiave per la stessa attività del chiaroveggente. Dice infatti che la geologia ha cominciato ad ottenere risultati certi solo quando ha cominciato a partire dai dati e processi oggi esistenti sulla terra, e non da principi astratti come prima. Ugualmente il filosofo ha oggi davanti a sé il pensare, da lì deve partire (e ugualmente, aggiungerei io, anche il chiaroveggente parte da qualcosa che oggi esiste per introdursi, poniamo, nella Cronaca dell’Akasha).
Nemmeno risulta importante se questo pensare sia giusto, corretto, o no. È in ogni caso un fatto, semmai il problema è la sua applicazione al mondo.

Aggiunta del 1918
Steiner nota che in situazioni diverse dal pensare l’io non è attivo al 100% (per es. nel piacere). Nel pensare lo è, e in questo senso il pensare è anche “voluto”, non perché lo si sia scelto (io non scelgo le immagini di un sogno, i pensieri , le considerazioni di un sogno), ma perché proviene comunque dall’attività del soggetto.
Altri obietta che alla base del pensare vi possa essere una attività non cosciente, la quale non sarebbe apparente, né visibile a noi. Però Steiner obietta che l’inganno potrebbe esservi se l’io fosse “fuori” dal pensare, ma così non è. “Non si può arrivare a qualcosa che produca il pensare uscendo dalla sfera del pensare”.


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 Oggetto del messaggio: Re: Una sintesi: la Filosofia della libertà
Messaggio da leggereInviato: 11/06/2012, 19:58 
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Iscritto il: 13/07/2011, 20:31
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Capitolo 4: Il mondo come percezione

All'inizio RS mostra l'esistenza dei concetti come in reciproca appartenenza con il mondo degli oggetti. Questo è tradizionale in filosofia, poiché era un vecchio problema capire come diavolo fa qualcosa che è fuori della testa a starci anche dentro: sono due o è la stessa?
Delle idee, poi, RS dice che la differenza con i concetti è piuttosto quantitativa che qualitativa.
Ma subito interviene una novità, che RS pone quale differenza tra lui ed Hegel (la FdL si propone in prima istanza all'ambiente dei filosofi, anche se è per tutti).
PRIMA c'è il pensare, e solo DOPO i concetti e le idee. Abbiamo discusso sul fatto che questo permetta di non cadere in quella immobilità metafisica che caratterizza il mondo di Hegel: quest'ultimo, ponendo il concetto come elemento primo e originario, lo mette fuori dell'uomo, e a risentirne è naturalmente la libertà dell'uomo, e anche il valore della sua creatività.
Dunque il concetto non è "là", "chiuso" nel pianoforte che vedo o nei suoni che odo. Sono io che lo aggiungo (e poi li combino, e creo/trovo il concetto di scala musicale, o di contrappunto, o di tango, o di strumento ecc.)

Osservo che di solito noi colleghiamo fatti o oggetti a partire dalle nostre coincidenze sensoriali. Se il primo temporale è a lui vicino, il bambino collegherà il lampo e il tuono in una certa relazione concettuale (fosse anche il semplice concepire che tra i due c'è un rapporto quale che sia). Se però uno facesse solo l'esperienza di burrasche lontane, e quindi percependo i due fenomeni con tempi molto sfasati, la relazione temporale tra i due fatti potrebbe sfuggirgli. O risultare falsata.
Ugualmente è una coincidenza tra tatto e vista a determinare la nostra conoscenza del mondo solido (che si riflette poi nel nostro modo di pensare e nel linguaggio). Però, se guardiamo il fondo del mare stando fuori dell'acqua, già la percezione è "ingannevole", cioè diversa. E se guardiamo il sole ... non avendo conferme tattili usiamo lo schema oggetto\sfondo che ci è abituale, collegando quindi al diverso colore e alla diversa luminosità il concetto di sole e quello di sfondo celeste.

Comunque sia, il punto è che l'osservazione da sola non basta: devo attivare il pensare, solo così arrivo ai concetti. Che dunque non si trovano già pronti nella sola osservazione. Il concetto di albero di Natale non ce l'ho solo guardando questo strano abete con tanti gingilli intorno, devo anche sapere del Natale, e poi collegare.
Mi fermo qui, per adesso. Sotto con le contestazioni. ;) Credo che un buon metodo potrebbe essere immaginare dei semplici esempi per quanto qui affermato, e poi ... contestarli, criticarli, comprovarli ecc.
Oppure portare avanti il discorso con concetti anche tratti dalle poche pagine che seguono.
Ma, certo, se vogliamo anche impadronirci del discorso intero, serve porsi delle domande quali: che differenza c'è tra un concetto e un'idea? Esiste qualche concetto che si palesi alla sola osservazione, senza il pensare?

La scienza non può dunque nascere dalla sola osservazione, in quanto occorre aggiungere a questa il pensare. Osservazione e pensiero vengono collegati nella coscienza dell'uomo, che fa come da mediatrice. Noi percepiamo questa mediazione come uno stare tra la cosa, il dato, e la nostra attività pensante. Se l'oggetto di questa attività è lei stessa (il pensare), abbiamo l'autocoscienza.
Ci percepiamo allora come soggetto (attivo), ma occorre riconoscere che il concetto di soggetto proviene dal pensare, che dunque è al di là e al di fuori di soggetto e oggetto, viene prima, proprio perché li crea. Prima viene l'attività pensante, poi il mio stesso sentirmi soggetto (si crea così una relazione tra soggetto e oggetto, in quanto ambedue si trovano "dalla stessa parte" rispetto al pensare). Da cui la DOPPIA NATURA dell'uomo: pensando si collega al mondo, ma sentendosi soggetto, (io), si oppone al mondo.

La pura osservazione di per sé è caos. Pura significa non organizzata in alcun modo. D'altra parte abbiamo visto che il pensare viene prima del soggetto, quindi non è "soggettivo". Né sono "soggettivi" i rapporti che il pensare pone.

Ora viene la difficile distinzione tra percezione e sensazione. Io percepisco anche un sentimento, ma questo NON è una sensazione. La percezione dipende dalle condizioni in cui ci troviamo (es. percepisco un viale in prospettiva, ma se vado in fondo la prospettiva si rovescia). Questa RS la chiama dipendenza matematica (dalla condizione oggettiva), mentre la dipendenza qualitativa è legata alle condizioni dei miei organi (come il daltonico, o chi sia ustionato e quindi delicatissimo, ecc.).
Ma allora, se per le percezioni, dipendo dal mio organismo, tutte le percezioni saranno irrimediabilmente soggettive, visto che siamo tutti diversi? Sino ad arrivare a Berkeley, per il quale tutto quello che io non percepisco non esiste, in quanto tutto il creato esiste solo per esser percepito dallo spirito (e infatti ipotizza come escamotage che se anche io non la percepisco, la cosa può esistere comunque nella coscienza di uno spirito [Dio] eterno). Ma poiché ogni cosa percepita necessita della nostra soggettività (il corpo, per esempio, l'occhio, il tatto...), e non solo delle sue solite qualità spaziali, B. ne deduce che se sparisce la prima scompare tutto. E ogni descrizione è di necessità legata ad un rapporto indissolubile (un abbraccio mortale!) con il mio organismo fisico che percepisce. Esiste una via d'uscita? C'è qualcosa che devo presumere preesistente alla percezione, e necessaria perché questa avvenga?

Ora, attenzione, io posso percepire tante cose, ma insieme percepisco che sono io a percepire. Sono cioè cosciente (anche se non proprio in ogni momento allo stesso livello) sia dell'oggetto osservato che della mia persona osservante. E in questa coscienza-io rimane traccia dell'oggetto osservato (meglio: del processo di osservazione). Questa è la rappresentazione, cioè l'azione dell'io che si è modificato tramite la percezione dell'oggetto; se si vuole è la capacità dell'io di regolare e trattenere le percezioni rapportandole a sé. Il mondo interiore è il contenuto della percezione del mio sé, il mondo esteriore è quello degli oggetti percepiti (fuori di me).
Così, Berkeley dice che io non percepisco gli oggetti (esterni) ma solo le mie rappresentazioni (entro il sé) finché mi applico a ...? a che cosa, se non posso definire questi oggetti? Allora, Berkeley mette in gioco l'azione di Dio, che mi fa percepire, lui. Invece Kant dice che io posso, sì, conoscere solo le mie rappresentazioni perché non sono fatto in modo tale da poter conoscere il mondo esterno: ma quest'ultimo esiste, posso pensarlo, ma non conoscerlo veramente.

Dentro a questo pensare, però, c'è l'inghippo! Se suoni, colori, calore sono soltanto modificazioni del nostro organismo provocati da qualche causa agente che in sé è ben diversa da quanto io percepisco; se io percepisco non i dati dall'esterno, ma solo le modificazioni che essi provocano nei miei sensi; se poi anche quello che la mia anima "sente" non somiglia affatto ai processi che si svolgono nei sensi e nel cervello (es.: luce>occhio>nervo ottico>cervello..., ma la mia sensazione del rosso non ha nulla a che fare con il processo che si sta svolgendo entro il cervello in quel momento, il processo, per intendersi, non è "rosso"); allora è solo l'anima che riunifica tutte queste sensazioni più o meno "arbitrarie" in una rappresentazione nella quale non rimane niente di quello che era l'oggetto inizialmente percepito. L'albero "nella mia testa" non c'entra con quello "reale" che mi stimola la visione. L'oggetto esterno viene perduto! Quello che per il pensare ingenuo sarebbe l'oggetto concreto, è invece un prodotto totalmente della mia anima.
Macché! Come posso presumere che esista un oggetto ben diverso da quello che io mi ricreo rappresentandomelo? Ma anche i miei sensi, di conseguenza, non sono più cosa reale, sono invece anch'essi delle mere rappresentazioni fatte dalla mia anima. Qua ci troviamo solo con tante rappresentazioni e nessuna realtà che possa agire! Io le posso anche collegare bene tra di loro, ma non posso mai "uscire all'esterno". Passo solo da una percezione alle altre.
(In più, c'è anche questo salto: quando osservo entro i sensi, ma ancor più "nel cervello", beh, non si tratta più di "osservazione esteriore". Questa va dai sensi (A)al cervello (B), mentre l'osservazione "interiore" va dalla sensazione (C) al lavoro dell'anima (D). Ma tra cervello (B) e sensazione (C) c'è il vuoto, non si sa che cosa ci sia.)
In sintesi, questo pensare, che è l'idealismo critico, erra dando valore oggettivo alle percezioni dell'organismo (esse sarebbero solo rappresentazioni). Ma ha bisogno di presupporre come esistente a priori proprio quell'organismo umano che il pensiero ingenuo ammette certamente, ma che l'idealismo critico, se fosse coerente, non potrebbe ammettere affatto. E qui l'idealismo critico si incarta, se mi si passa l'espressione.
Io la direi alla buona così: se io posso conoscere solo le mie percezioni, come posso dire che esse sono causate da, o rapportabili a un oggetto esterno ad esse, visto che data la premessa io non posso sapere nulla di questo oggetto, neanche se esso possa esistere? Almeno Berkeley fa intervenire Dio, come appunto un deus ex machina a risolvere il nodo; Kant invece tutta la contraddizione la lascia là, dice che l'oggetto, certo, c'è, ma io non posso conoscerlo veramente nella sua essenza, nella sua profonda sostanza. Insomma, né carne né pesce, per dir così.

Il capitolo termina portando ad esempio Schopenhauer ... "io non conosco il Sole o la Terra, ma sempre e soltanto un occhio che vede il Sole e una mano che tocca la Terra. Il mondo esiste solo se qualcuno se lo rappresenta. Ma poiché anche l'occhio e la mano sono percezioni quanto Sole e Terra, occhio e mano non sono reali, quindi non possono rappresentarsi Sole e Terra."
Non si riesce quindi in Schopenhauer a separare il mio percepire da quanto, fuori di esso, ne è all'origine. Perciò nulla si sa del rapporto tra percezione e rappresentazione, tra esterno e interiorità.


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 Oggetto del messaggio: Cap. 5 La conoscenza del mondo
Messaggio da leggereInviato: 11/06/2012, 23:15 
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Cap. 5 La conoscenza del mondo

Abbiamo visto che 1) il realismo ingenuo si basa su premesse insufficienti. Infatti non riesce a spiegare il rapporto, il legame tra l’oggetto e la sua rappresentazione. Ma 2) l’idealismo critico non accetta tali premesse, e però poi ne mantiene le deduzioni. Ovverosia, dichiara che “il mondo è una mia rappresentazione”, perché conosce solo la sua rappresentazione, OK, ma allora come fa a parlare di “mondo”? (“mondo” che sarebbe appunto nelle premesse del realismo ingenuo: “quel lavandino c’è, indubitabilmente!”).
Se penso che tutto il mondo percepito sia solo una mia rappresentazione (idealismo critico) come diavolo allora posso conoscere le “cose”??? Quelle cose che causano la mia percezione: io non le “vedo” però voglio indagarne, da scienziato, le proprietà , e questa è la moderna scienza. Posso dare il massimo di importanza a questa “cosa” quasi inconoscibile, ma posso anche snobbarla, tanto “non posso saperne nulla”. Come dire che la vita è sogno, e che anch’io sono sogno! Perciò nella coscienza non ho affatto l’io, ma solo la rappresentazione dell’io. Un sogno che nel sogno dipende da sé stesso (Fichte). Steiner chiama questa concezione “illusionismo assoluto”, mentre la posizione di chi ricerca con la scienza di scoprire “la cosa in sé” è il “realismo trascendentale” di Eduard von Hartmann (si chiama così perché cerca il reale a partire dal soggettivo, ma appunto il reale trascende, cioè sta al di fuori di questo soggettivo).
Steiner chiede al realista trascendentale (che poi sarebbe il moderno scienziato): come fa l’io a creare il mondo delle rappresentazioni traendolo da sé stesso?

Le rappresentazioni dovrebbero quantomeno essere allora aspetti di un io reale e conoscibile, non del mondo “esterno”. Se gli oggetti sono solo rappresentazioni, io sogno sempre, almeno finché non mi risveglio: in quel momento dovrei raggiungere una vera conoscenza del mondo esterno. In realtà, in quel momento mi vado ad interessare di processi di tipo fisiologico e psicologico, allo scopo di superare la rappresentazione calandomi nella “realtà”. Se di fronte al sogno sta la “luce” della veglia, di fronte alla vita di veglia per l’illusionismo assoluto non c’è nulla. E invece, dice Steiner, come la veglia sta al sogno, così il pensare sta allo stato di veglia. Per illuminare la mia percezione, per spiegarla, io dispongo del pensare, che magari può anche sbagliare, ma che sta appunto lì di fronte alla percezione nello stato di veglia.
La coscienza ingenua vede questo pensare come un qualcosa che, in disparte, riflette sulle cose del mondo, e il suo operare non c’entra con la realtà, che è già completa senza il pensare. Ma non è così, anche il pensare fa parte del mondo: come per la pianta è necessaria la terra, così per il concetto di pianta è necessaria una coscienza pensante. Nell’intero conosciuto non c’è solo la parte percepita, ma anche il pensare che crea il concetto. Il bocciuolo di rosa può mutare continuamente di forma se messo in acqua, e tutte le sue successive immagini non sono la cosa, ché sarebbero mille cose diverse, e invece la rosa è una, e questo appare chiaro nel concetto: “questa rosa” (non: “queste mille immagini di che?”).
Né si può dire che la cosa sia la somma di tutte queste immagini. Come la parabola formata dalle successive immagini di una pietra lanciata nell’aria non è fenomeno estraneo, ma fa parte di necessità del fenomeno, così la forma-parabola che noi deduciamo dall’osservazione viene dopo per noi, ma solo a causa delle nostre limitazioni, della nostra organizzazione spirituale. Noi siamo fatti così: da una parte riceviamo le percezioni, dall’altra ci mettiamo il pensare. Ma questo riguarda appunto noi e solo noi, non è che nella realtà le due cose siano separate. Il processo di separazione è un procedimento di conoscenza necessario per noi, per la nostra modalità di esistenza separata dal mondo.

Determiniamo ora la nostra posizione di essere rispetto agli altri esseri. Intanto vediamo che vuol dire divenire coscienti del nostro sé. Significa autopercepirmi, percepire la mia limitata persona con un pensare che ne supera i limiti. Infatti, io e te ci intendiamo perfettamente se parliamo di un triangolo, il pensare ci dà eguale risultato, anche se poi ognuno lo colora con la propria personalità. Non solo è eguale, è proprio lo stesso concetto, lui, il triangolo. Se nel sentire e percepire siamo esseri singoli, “in quanto pensiamo siamo l’essere uno e universale che tutto pervade”. Abbiamo dunque una doppia natura, e conosciamo il pensare (universale) dal nostro angolino periferico dell’universo, e proprio attraverso il pensare conosceremo il resto del mondo, per quanto possibile. È il pensare stesso in noi che ci dà l’impulso alla conoscenza. E la conoscenza deve riunire l’elemento esteriore – percezione – con quello interiore – pensiero. Le due facce dell’identica unica moneta.
Poiché qualunque percezione è solo un lato della realtà, non è possibile trovare nelle percezioni, nelle cose percepite, un universale: occorre che ne faccia parte anche il pensare! La materia, l’energia, lo stesso Dio-personaggio con la barba bianca, e pure la “volontà” di Schopenhauer non possono essere entità universali, sono sempre metà della realtà. Schopenhauer si fa sedurre dal fatto che, mentre la rappresentazione appare esterna, esangue, la volontà afferra invece con immediatezza l’uomo nel fisico, e per lui questo ne fa una realtà in sé. Ma Steiner ricorda che anche l’azione del corpo va autopercepita, e dunque osservata, conosciuta con il pensiero. (NB: nell’ediz. 1986, ma forse anche in altre, c’è un errore: a ¾ pagina leggi non: Questo filosofo crede che non arriveremo proprio mai a comprendere il mondo, se non lo consideriamo come mondo esterno; bensì: Questo filosofo crede che non arriveremo proprio mai a comprendere il mondo, se lo consideriamo come mondo esterno, cioè l’esatto contrario.)

Sarebbe il pensare astratto? Una percezione senza pensiero, immediata, disordinata, come quella di una lingua sconosciuta, non ci dà conoscenza. Per mettere ordine, per trovare gerarchie, ci mettiamo il pensare attivo. Vedo la chiocciola, vedo il leone, ma solo l’attività del pensiero mi mostra che la chiocciola sta ad un gradino di organizzazione inferiore. (Qui vorrei notare che l’italiano ha una certa disposizione ad illudersi in merito, perché il suo rapporto con l’anima senziente lo spinge ad accettare con meraviglia le percezioni come realtà che si svela, già dotata di una sua “perfezione”, mentre il tedesco è più avvertito dell’operare del suo pensare cosciente – ma è chiaro che questa osservazione aggiunge un elemento estraneo al discorso, al limite non pertinente: la si prenda come una esemplificazione).

L’apparire di questo pensiero dall’interno si presenta sotto forma di “intuizione”, ed è quella parte mancante che completa per noi la “cosa”. Senza ciò, abbiamo solo frammenti sconnessi di percezioni. L’azione si svolge in questo modo: prima noi abbiamo bisogno, per come siamo fatti, di scomporre l’unità del mondo in tanti pezzettini, in opposti, per esempio, o in gradazioni: ma poi le nostre intuizioni ristabiliscono l’unità del mondo. La percezione separa e poi il pensiero unisce. Tra le singole percezioni solo il pensare mette collegamenti e legàmi .

Lo scienziato, così come l’uomo comune, può avere solo una serie di percezioni, ma non può collegarle tra loro se non attraverso il pensare. La scienza confonde il processo ideale del pensare che collega le percezioni con un supposto rapporto oggettivo, che però allora dovrebbe essere anch’esso percepibile, mentre invece per lo scienziato è zona misteriosa. Il nesso tra occhio e colore non è in sé percepibile, è un nesso ideale, posto dal pensiero. (Come esempio: il legame reciproco tra le tre parole della frase “un bel bambino” non è visibile sulla carta, ma io lo pongo col mio pensare trovando il senso proprio tramite quei nessi).
Nella rappresentazione il soggetto che percepisce , in precedenza modificato dalla percezione, ha o crea una percezione soggettiva, mentre in presenza dell’oggetto ha una rappresentazione oggettiva. Soggettivo è quanto inerisce solo al soggetto (come: ricordo, riproduco una immagine), ma se l’oggetto è presente e io lo percepisco, ciò è oggettivo, perché vi è l’intervento esterno dell’oggetto. Ed è solo il pensare che pone un legame tra soggettivo ed oggettivo, non certo un qualunque atto reale percepibile. (Come esempio: la caduta del ramo è causa del mio bernoccolo, ma questa causa resta un legame di pensiero, non la posso vedere o toccare, è un concetto).

Aggiunta ediz 1918

Formandosi proprie rappresentazioni, l’uomo si dice che esse sono indispensabili per conoscere il mondo. È appunto per questo che poi si può arrivare a credere che solo nella rappresentazione, che proviene dall’interno, conosco il mondo. E allora posso voler cercare la cosa in sé, visto che quanto viene da me stesso prodotto nella rappresentazione evidentemente è altro da quello che sta là fuori. Questo è un momento di contrapposizione dialettica rispetto al pensare ingenuo, per cui il mondo è là, stop. Ora si dice che il mondo non è quello apparente, e ci deve essere altro, una cosa in sé, una misteriosa essenza. Ma accade che, nel giustamente abbandonare il pensare ingenuo, se ne conservi tuttavia il modo di operare: infatti, anche le proprie rappresentazioni vengono prese come delle realtà, e allora non potrà essere questa la realtà vera delle cose, che vengono viste come un’altra realtà, tornando in ciò al modo di pensare ingenuo. Se però ci si rende conto che la propria conoscenza è composta da percezione+pensiero, allora questa presunta frattura tra dentro e fuori, che risponde all’operare del realismo ingenuo da una parte (là è una cosa, qua dentro un’altra cosa), e alle modalità dell’idealismo critico dall’altra (io posso conoscere solo le mie rappresentazioni, ma non la realtà del mondo, dunque c’e là una realtà misteriosa, e la scienza la deve scoprire – ragionamento che si contraddice, perché se percepisco solo l’interiore, come posso affermare che là c’è qualcosa, esattamente come fa il pensiero ingenuo?) viene ricomposta.


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