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Autore Messaggio
 Oggetto del messaggio: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 11/10/2012, 8:47 

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(Cap 4: 1° parte di 8 )

IV - IL MONDO COME PERCEZIONE
Per opera del pensare sorgono concetti e idee. Che cosa sia un concetto
non si può dire con parole: colle parole si può solo richiamare
l'attenzione dell'uomo sul fatto ch'egli ha dei concetti. Quando qualcuno
vede un albero, il suo pensare reagisce sulla sua osservazione. All'oggetto
si aggiunge una controparte ideale, ed egli considera l'oggetto
e la controparte ideale come appartenentisi l'un l'altro. Quando l'oggetto
sparisce dal suo campo d'osservazione, sopravvive solo la controparte
ideale. Quest'ultima è il concetto dell'oggetto. Quanto più si allarga
la nostra esperienza, tanto più cresce la somma dei nostri concetti. I
concetti non rimangono però isolati: si riuniscono a formare un insieme
secondo un certo ordine. Ad es., il concetto « organismo » si unisce
con quelli di « evoluzione, crescita, ecc. ». Altri concetti derivanti da
cose singole si fondono completamente in uno: tutti i concetti ch'io mi
formo di singoli leoni, si fondono, ad es., nel concetto generale di «
leone ». Per tal modo i singoli concetti si collegano fra loro in un sistema
chiuso, nel quale ciascuno ha il suo posto particolare. Qualitativamente,
le idee non sono diverse dai concetti; sono concetti più ricchi
di contenuto, più saturi, che abbracciano di più. A questo punto devo
insistere in modo particolare sul fatto, ch'io ho preso come punto di
partenza il pensare, non i concetti e le idee, a cui soltanto per mezzo
del pensare si perviene. Essi presuppongono già il pensare. Quindi non
si può applicare senz'altro ad essi quello che ho detto riguardo alla natura
del pensare, il quale non poggia che su se stesso, non è determinato
che da sé stesso. Faccio espressamente questa osservazione perché
in ciò sta la mia differenza da Hegel. Egli pone infatti il concetto come
elemento primo ed originario.
Il concetto non si ricava dalla semplice osservazione. Ciò si rileva
già da questo, che l'uomo, durante la sua crescita, non si forma che
lentamente e gradualmente i concetti degli oggetti che lo circondano. I
concetti si aggiungono all'osservazione.
Un filosofo contemporaneo molto letto, Herbert Spencer, descrive
così il processo spirituale che noi compiamo di fronte all'osservazione:
« Se, camminando attraverso i campi in un giorno di settembre, udiamo
un fruscio a qualche passo di distanza, e sulla sponda del fosso, da
cui ci è sembrato che il fruscio provenisse, vediamo che l'erba si muove,
noi probabilmente marciamo diritti su quel punto per vedere che
cosa produceva e il fruscio e l'agitarsi dell'erba. Al nostro avvicinarsi,
una pernice si alza a volo dal fosso. La nostra curiosità è allora appagata
: noi abbiamo quel che chiamiamo una spiegazione dei fenomeni. A
ben riflettere, tale spiegazione deriva da ciò che in vita nostra abbiamo
già infinite volte notato come l'alterazione dello stato di riposo dei piccoli
corpi è spesso accompagnata dal moto di altri corpi che vi si trovano
in mezzo: e poiché abbiamo poi generalizzato i rapporti fra tali
alterazioni e tali moti, noi riteniamo una particolare alterazione come
spiegata non appena troviamo ch'essa costituisce un esempio di detti
rapporti ». Ma se uno guarda la cosa più da vicino, essa si presenta in
un modo assolutamente diverso da quello qui descritto. Quando io sento
un fruscio, cerco anzi tutto il concetto per questa osservazione. Questo
concetto soltanto mi apre la strada al di là del fruscio. Chi non pensi
oltre, sente il fruscio e se ne appaga. Ma chi pensa s'accorge che
deve considerare il fruscio come effetto. Quindi soltanto quando ho
congiunto il concetto di effetto con la percezione del fruscio, sono
spinto ad andare al di là della singola osservazione e a cercare una
causa. Il concetto di effetto chiama quello di causa, e io mi metto a
cercare l'oggetto-causa, che scopro sotto l'aspetto di pernice. Ma questi
concetti di causa ed effetto io non posso mai ottenerli dalla mera osservazione,
per quanto estesa a numerosissimi casi. L'osservazione
provoca il pensiero, e questo soltanto m'indica la via per collegare un'esperienza
con l'altra.
Se si pretende che una scienza « rigorosamente oggettiva » derivi
il suo contenuto soltanto dall'osservazione, si deve pure pretendere
ch'essa rinunzi affatto al pensare, che questo per sua natura va sempre
al di là dell'osservato
Ma ora è il momento di passare dal pensare all'essere pensante,
perché mediante l'essere pensante il pensare viene collegato coll'osservazione.
La coscienza umana è il teatro su cui concetto e osservazione
s'incontrano e vengono insieme congiunti Ciò caratterizza già questa
coscienza (umana). Essa è l'intermediario fra pensiero e osservazione.
In quanto l'uomo osserva una cosa, questa gli appare come data; in
quanto egli pensa, appare a sé stesso come attivo. Considera la cosa
come oggetto, sé stesso come soggetto pensante. In quanto dirige il suo
pensare sull'osservazione, ha coscienza degli oggetti; in quanto dirige
il pensare su sé medesimo, ha coscienza di sé stesso o autocoscienza.
La coscienza umana deve necessariamente essere sempre anche autocoscienza,
poi che è coscienza pensante. Ché quando il pensare rivolge
lo sguardo sulla sua propria attività ha la sua prima e propria essenza,
ha cioè il suo soggetto come oggetto.
Non si deve però dimenticare che soltanto coll'aiuto del pensare
noi possiamo riconoscerci come soggetto e contrapporci agli oggetti.
Quindi non si deve mai concepire il pensare come un'attività puramente
soggettiva. Il pensare è al di là di soggetto e oggetto. Forma egli
stesso questi due concetti, come tutti gli altri. Quando noi come soggetto
pensante ci formiamo il concetto di un oggetto, non dobbiamo
prendere il relativo processo come qualcosa di puramente soggettivo.
Non è il soggetto che compie il processo, ma il pensare. Il soggetto
non pensa perché è soggetto; ma appare a se stesso come soggetto perché
ha la facoltà di pensare. L'attività che l'uomo svolge come entità
pensante, lungi quindi dall'essere puramente soggettiva, non è né soggettiva
né oggettiva: è al di là di questi due concetti. Non posso mai
dire che il mio soggetto individuale pensa: esso vive, piuttosto, grazie
al pensare. Il pensare è con ciò un elemento che mi porta al di là di me
stesso e mi collega cogli oggetti. Ma allo stesso tempo mi separa da
loro, in quanto mi contrappone a loro come soggetto.
Su ciò riposa la doppia natura dell'uomo. Egli pensa, e cosi facendo
abbraccia sé stesso e il resto del mondo; ma allo stesso tempo per
mezzo del pensare egli deve determinarsi come un individuo che sta di
fronte alle cose.

Cita:
Rob 11/10/12:
"Qui c'è un leone!" Con questa affermazione abbiamo collegato il pensare all' oggetto dato: il "leone";
anche nel semplice oggetto c'è una somma di concetti che si sviluppa;
si poteva trattare anche di un fenomeno (il tuono che segue il lampo o la pernice che vola via dopo che ha smosso le fronde o il sasso lanciato che cade compiendo una parabola); sempre in tutti questi casi il "pensare" aggancia ciò che viene dato per tramite dell' osservazione; lo può fare,completando in tal modo l' "oggetto" od il "fenomeno" in quanto esso è strettamente apparentato con essi; anzi, li "completa"!
Ma questo nostro pensare, proprio perché da noi prodotto, ci rende anche "soggetti" pensanti!
Ossia, il pensare è prodotto da noi (e ci rende pertanto soggetti pensanti), ma è strettamente pertinente agli oggetti ed ai fenomeni che invece ci vengono dati.
La mia percezione è di essere "separato" da quegli oggetti; ma il mio pensiero invece è collegato sia a me (che produco attivamente quel tipo di attività) che all' oggetto (che invece è separato da me!).
Quindi qua c'è come un paradosso da risolvere: l' uomo pensa e tramite il pensare è unito agli oggetti (che, altrimenti, non potrebbe nè conoscere e neppure ri-conoscere), ma proprio perché pensa egli si vede come soggetto pensante da una parte contrapposto a tutto ciò che il proprio pensare invece va a collegare, va a completare: gli oggetti, i fenomeni.
Il pensare dunque aggancia gli "oggetti" da un lato e di ciò ne abbiamo coscienza oggettiva, ma aggancia anche me che produco il pensare e mi si dà alla coscienza come il "soggetto" che produce quel pensare: è ovvio che queste due immagini a livello di coscienza siano differenti! Si mostrino una come oggetto ed una come soggetto!
In quanto percettore del "soggetto" quindi trovo la separazione tra me (pensante) e tutti gli altri oggetti. Io produco il "pensare" e pertanto mi osservo in questa peculiare caratteristica, rispetto a tutto il resto; ma tutto il resto, nondimeno, viene agganciato, viene completato dal pensare stesso!
Quindi possiamo finalmente dire: non è la "percezione" di me (soggetto pensante) che può darmi l' unione con il restante mondo oggettuale, bensì è il pensare stesso che prodotto da me conosce e ri-conosce gli oggetti da una parte e me dall' altra. Il riconoscimento nella coscienza che abbiamo di noi stessi però è qualitativamente diverso dagli oggetti che ci si presentano; infatti gli oggetti NON sono da noi "creati" ma solo "completati" dal pensare; mentre nel caso di noi soggetti pensanti, siamo "anche" i creatori del pensare!
Ecco questa è la sola differenza tra noi come "soggetto" e tutto il resto.
Noi pensiamo e siamo percepiti come creatori del pensare (soggetto pensante); mentre tutto il resto è solo pensato (perché già "creato", già prodotto); in questa differenza di stato si forma il dualismo.
Che ci rende come separati dal tutto. Ma l' uomo produce il pensare che invece unisce se stesso come pensante da un lato al mondo come pensato dall' altro.
Il "pensato"/soggetto è diverso dal "pensato"/oggetto in quanto il pensato/oggetto NON è creato dall' uomo MA conosciuto per il collegamento che il pensare HA con esso.
Il "pensato"/soggetto (che quindi è a sua volta diventato "oggetto" di osservazione) E' anche creato dal pensante.
Quindi a questo punto non è veramente neanche più il "soggetto" che pensa! perché dicendo già "soggetto" abbiamo già contrapposto quella che è una immagine a livello di coscienza alle altre "date" ("oggetti"). Qua c'è semplicemente il "produttore" del pensare, ossia di qualcosa che è in grado di riunire in sé tutto (soggetto ed oggetto quindi), e che a livello di coscienza si palesa da un lato come immagine di "soggetto" (pensante) e dall' altra di "oggetto".
Allora NON è il "soggetto" che pensa! Ma è il pensare che rende l' immagine di chi pensa come "soggetto" per distinguerla dal resto che viene invece rappresentato come "oggetto".
Il "soggetto" è quindi separato dal resto! In quanto la sua condizione è veramente differente dall' altra, che viene "data"!
Ma il "produttore" del pensare stesso invece, sempre per lo stesso "pensare" E' connesso al tutto, agli oggetti!
SE il pensare "completa" gli oggetti e SE il pensare è prodotto dall' uomo, ecco che allora il pensare stesso sarà il "ponte", il collegamento che ci sarà tra il "soggetto" (pensante) ed il mondo restante ("oggetto").
Dove starà allora il dualismo?
Starà tra l' "immagine" del soggetto pensante (posto da una parte dell' abisso) e l' "immagine" del mondo restante (posto nella coscienza dall' altro lato dell' abisso)!
Se restiamo a livello quindi di "immagini" ci sarà dualismo; ma, così, NON ci sarà MAI nulla veramente che possa farci CONOSCERE e ri-conoscere il mondo restante! Hai voglia "infilare" di forza la "sedia" che c'è fuori nella testa!
Invece se cogliamo la realtà per ciò che è, e che pertanto ci è possibile CONOSCERE anche gli oggetti del mondo, allora dobbiamo riconoscere che non può esservi assolutamente un dualismo! perché se veramente si trattasse di dualismo, non vi sarebbe alcun ponte che collegherebbe "soggetto" ed "oggetto" ed addio comprensione e conoscenza del mondo!
Se invece questo "ponte" esiste (ed esiste in quanto siamo consapevoli di rapportarci al mondo oggettuale) allora quello che sembra essere dualismo è appunto solo un "sembrare", ma non è reale!

Ora però Steiner prosegue e devo dire in modo veramente "geniale" mette in discussione anche ciò che giunge a noi nel campo di coscienza come "osservato".
Ad ora abbiamo solo visto che all' "oggetto", all' "osservato", al "fenomeno" che giungono al campo di coscienza come qualcosa di "dato", che compare per primo, si "aggiunga" poi il lavoro del pensare che va a completare l' oggetto stesso.
Ma ora Steiner ci mostrerà come il "pensare" stesso NON agganci l' oggetto che giunge nel campo di coscienza, come si trattasse di un piatto di pastasciutta che "compare" finalmente sul nostro tavolo ed al quale poi noi dedichiamo il nostro lavoro di metabolizzatori!
No, l' "oggetto" stesso, quando finalmente giunge sul tavolo, ehm nel campo della coscienza, E' già stato "processato" dal pensare stesso!
Da quando quelle onde elettromagnetiche, quelle vibrazioni sonore ecc.. hanno incontrato i nostri vari sensi, al momento che esse giungono sul campo di coscienza come un "dato oggetto" sul quale il pensare stesso poi avvierà il suo ulteriore lavoro, in realtà è il "pensare" stesso che ci produce quel tipo di "piatto".
Quindi abbiamo questo tipo di situazione:
1) a livello di coscienza compare l' oggetto "leone"; ora il pensare ri-conosce il leone e mi fa dire "C'è un leone!" e magari interroga anche il concetto di "sbarre" per collegare magari se tra il leone e me ci sono appunto delle sbarre o meno! Oppure sorge il fenomeno "le frasche si muovono" a cui posso collegare il pensare "se si muovono, cosa le fa muovere?" e pertanto sapere delle cause che hanno prodotto ciò. Ecc...

MA ora Steiner ci invita a fare un passo indietro! Ed allora:
2) a livello di coscienza "quel" leone che appare, "quello" stormire di fronde che compare... CHI ce li ha messi???? In che modo sono arrivati da là fuori fino dentro la mia testa, nella mia coscienza?
Questo quindi sarà il (geniale) prosieguo della riflessione che Steiner fa, per comprendere che solo per il tramite del "pensare" che ciò avviene, e non per qualche alchimia tra le onde elettromagnetiche e le vibrazioni sonore da un lato, ed altri mediatori chimici che vengono stimolati negli organi di senso, i quali a loro volta scatenano altre reazioni che portano a percorrere certe vie nervose le quali si riversano sul cervello, il quale (finalmente) riversa sul campo dell' anima, della coscienza cioè, "il leone" od il fenomeno "le frasche che si muovono".

Sarebbe ingenuo pensare questo, che è quanto può pensare al riguardo infatti l' uomo che non si interroghi su ciò; ma il pensarci in effetti porta ad un abisso da cui in nessun modo se ne può uscire!
Infatti SE un collegamento ci deve essere tra l' "oggetto" posto di fronte a noi quale esso è, e l' immagine che giunge come osservato alla nostra coscienza, allora dovrà esserci qualcosa che ci porta la sedia da là fuori dentro la nostra testa (e in tal modo la sedia resta la sedia); oppure il nostro mondo che percepiamo a livello di coscienza E' veramente tutto un altro mondo rispetto a quello che ci è dato! (la sedia nella nostra testa..chissà cosa veramente è là fuori!)
La sedia NON è allora veramente rossa, ma è solo una vibrazione elettromagnetica che ci fa percepire quel colore "rosso". Ma la domanda inevasa è: anche se così fosse, COME possiamo unire i due lati dell' abisso, dove da una parte sta' l' "oggetto" e dall' altra c'è l' immagine spirituale (quella che abbiamo a coscienza) e quindi "soggettiva"? Ancora una volta ci troviamo di fronte all' abisso della dualità: come CONGIUNGERE soggetto ed oggetto? Come congiungere una intenzione con l' arto che finalmente si muove?
Occorre veramente rispondere a questa domanda per dirsi che "anche" se in realtà davanti a noi NON ci stà il ROSSO ma solo delle particolari onde elettromagnetiche poi però quelle stesse onde elettromagnetiche come possono diventare a noi coscienti (anche in modo diverso, ossia con il colore ROSSO)?.
Si dà quindi un "oggetto-in-sè" davanti a noi, una "x", delle onde elettromagnetiche (potremmo così pensarle anche) e poi si dà a noi, a livello di coscienza, la "sedia" o "il rosso". Ma non ci si rende conto che abbiamo operato una "smaterializzazione" (e non importa se ora non si trattasse neanche più di "materia" in quanto "onde", dato che SEMPRE ha da avvenire un cambio d stato perché ciò "arrivi" in un campo che è di COSCIENZA!): quelle onde poi sono "diventate" qualcosa di diverso! E non perché sono diventate "sedia" o "rosso"; ma PERCHE' sono diventate PRESENTI nel campo della mia coscienza! perché la "materia" si è trasformata in "spirito"; perché quel salto da un campo all' altro dell' abisso c'è stato! MA allora, come è stato possibile ciò?


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 Oggetto del messaggio: Re: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 12/10/2012, 19:37 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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(Cap 4 - 2° parte di 8)

Adesso però sorge la domanda: « In che modo l'altro elemento, che
abbiamo finora indicato solo come oggetto d'osservazione, e che s'incontra
col pensare nella coscienza, penetra in questa? ».
Per rispondere a tale domanda, dobbiamo togliere via dal nostro
campo d'osservazione tutto ciò che vi abbiamo già portato col pensiero
: ché il contenuto della nostra coscienza è sempre pervaso da concetti
nei modi più vari.
Dobbiamo rappresentarci un essere che, sorgendo dal nulla con intelligenza
umana pienamente sviluppata, si affacci al mondo.
Quello ch'egli scorgerebbe prima di mettere in attività il suo pensare,
è il puro contenuto dell'osservazione. Il mondo non gli mostrerebbe
che un aggregato sconnesso di oggetti di sensazione: colori, suoni,
sensazioni di pressione, di calore, gustative, olfattive: e poi sentimenti
di piacere e di dispiacere. Questo aggregato è il contenuto dell'osservazione
pura, senza pensiero. Di fronte ad esso sta il pensare, pronto a
svolgere la sua attività non appena trovi un punto di presa. L'esperienza
presto insegna a trovarlo. Il pensare è in grado di tirare dei fili da un
elemento di osservazione ad un altro: e congiungendo determinati concetti
con questi elementi, stabilisce fra loro dei rapporti. Abbiamo visto
più sopra come un improvviso fruscio venga collegato subito con un'altra
osservazione mercé il riconoscimento che il primo è effetto della
seconda.
Tenendo presente che l'attività del pensare non deve affatto concepirsi
come soggettiva, eviteremo anche l'errore di credere che i rapporti
stabiliti dal pensare fra gli elementi di osservazione abbiano un valore
puramente soggettivo.
Si tratta ora di cercare, per mezzo del pensiero, qual genere di rapporto
corra fra quel contenuto dell'osservazione datoci per via immediata,
di cui abbiamo sopra parlato, e il nostro soggetto cosciente.
Data la elasticità di significato che certi vocaboli hanno nell'uso
corrente, sarà bene che m'intenda col lettore riguardo ad una parola che
adopererò spesso in seguito. Gli oggetti immediati di sensazioni che ho
prima nominati, li chiamerò - in quanto il soggetto cosciente ne prende
conoscenza per mezzo dell'osservazione - percezioni Con tal nome
indico dunque, non il processo dell'osservazione, ma l'oggetto dell'osservazione.
Non scelgo l'espressione sensazione perché questa ha in fisiologia
un senso determinato che è più ristretto di quello del mio concetto di
percezione. Un sentimento in me stesso posso ben qualificarlo come
percezione, ma non come sensazione nel senso fisiologico. Se debbo
acquistare conoscenza del mio sentimento, esso deve prima divenir per
me percezione. E il modo in cui per mezzo dell'osservazione acquistiamo
conoscenza del nostro pensare, è tale che anche questo, al suo
primo rivelarsi alla nostra coscienza, possiamo chiamarlo una percezione.
L'uomo semplice considera le sue percezioni, nel senso in cui immediatamente
gli appaiono, come cose che hanno un'esistenza completamente
indipendente da lui. Quando vede un albero, pensa dapprincipio
ch'esso veramente abbia la forma e i colori ch'egli vede, e stia proprio
li nel posto ove è diretto il suo sguardo. Quando lo stesso uomo
vede, al mattino, apparire il sole all'orizzonte in forma di disco, e segue
poi il cammino di questo disco sul cielo, egli ritiene che tutto ciò esista
e si svolga veramente (in sé) a quel modo ch'egli osserva. Egli resta
attaccato a tale opinione fino a che non s'imbatta in altre percezioni che
ad essa contraddicano. Il bambino che ancora non ha esperienza di
distanze, cerca di afferrare con le mani la luna e corregge ciò che a
prima vista aveva ritenuto per reale solo quando una seconda percezione
risulta in contraddizione con la prima. A mano a mano che si allarga
la cerchia delle nostre percezioni, siamo obbligati a correggere la nostra
immagine del mondo. Ciò si verifica sia nella vita quotidiana sia
nell'evoluzione spirituale dell'umanità. L'immagine che gli antichi si
facevano della relazione della terra col sole e cogli altri corpi celesti,
dovette essere sostituita da Copernico con un'altra, perché non andava
più d'accordo con certe percezioni che prima erano sconosciute. Un
cieco-nato operato dal Dr. Franz dichiarò che prima dell'operazione,
attraverso le percezioni del suo senso del tatto, s'era fatta tutt'altra immagine
della grandezza degli oggetti: egli ebbe a correggere le sue
percezioni tattili per mezzo delle sue percezioni visive.
Da che proviene, che noi siamo obbligati a queste continue rettificazioni
delle nostre osservazioni?
Una semplice riflessione ci darà la risposta a questa domanda.
Quando ci troviamo ad un'estremità di un viale, gli alberi all'altra estremità,
lontana da noi, ci appaiono più piccoli e più ravvicinati fra
loro che non quelli prossimi a noi. La nostra immagine percettiva diviene
però un'altra, non appena cambiamo posto d'osservazione: quindi
l'aspetto sotto cui essa ci si presenta dipende da una circostanza che
non è connessa con l'oggetto, bensì con noi percepenti. Per il viale, è
affatto indifferente il posto in cui stiamo, ma l'immagine che noi otteniamo
ne dipende invece sostanzialmente. Parimenti per il sole e per il
sistema planetario è affatto indifferente che gli uomini li guardino proprio
dalla terra; ma l'immagine percettiva che si offre agli uomini è
determinata da questa loro sede. La dipendenza della nostra immagine
percettiva dal nostro posto d'osservazione, è la più facile a riconoscere;

Cita:
Rob 12/10/12:
Bene, fino ad ora si è parlato di "oggetti" e di "osservazione"; adesso questi entrando nel nostro campo di coscienza, quindi relazionandosi al soggetto, daranno luogo alle "percezioni" o anche "immagini percettive".
Queste NON sono dovute esclusivamente all' "oggetto", ma dipendono anche dalla relazione che il soggetto ha con esse! L' immagine percettiva del sole quindi sarà collegata al nostro posto nel mondo; così come l' albero di un viale alberato sarà diverso non come "oggetto", ma come nostra "immagine percettiva" a seconda che noi ci troviamo in relazione ad esso: se all' inizio od alla fine di quel viale alberato!
Cita:


già più difficile è l'imparare a conoscere la dipendenza del mondo delle
percezioni dalla nostra organizzazione corporea e spirituale. Il fisico ci
insegna che dentro lo spazio in cui udiamo un suono hanno luogo delle
vibrazioni dell'aria, e che anche il corpo, in cui cerchiamo l'origine del
suono, presenta un movimento oscillatorio delle sue parti. Noi percepiamo
tale movimento come suono solo se abbiamo un orecchio normalmente
organizzato: senza di questo, il mondo ci rimarrebbe eternamente
muto. La fisiologia ci dice che vi sono uomini i quali non
percepiscono nulla della splendida festa di colori che ci circonda: la
loro immagine percettiva consiste soltanto in gradazioni di chiaro e di
oscuro Ad altri manca solo la percezione di un determinato colore, ad
es. del rosso: la loro immagine del mondo manca di questo tono, ed è
quindi effettivamente diversa da quella dell'uomo comune. La dipendenza
delle mie immagini percettive dal mio luogo d'osservazione, la
chiamerei una dipendenza matematica, quella dalla mia organizzazione
una dipendenza qualitativa. Dalla prima sono determinati i rapporti di
grandezza e le rispettive distanze delle mie percezioni, dalla seconda la
qualità di tali percezioni. Ch'io veda rossa una superficie rossa, è una
determinazione qualitativa che dipende dall'organizzazione del mio
occhio.

Cita:
Rob 12/10/12:
quindi l' immagine percettiva dipende dal mio posto nel mondo, e questa è la variabile che Steiner indica come "dipendenza matematica"; ora c'è pure una seconda variabile, che è chiamata "dipendenza qualitativa", che dipende dalla mia organizzazione corporea e spirituale;
senza organo di senso o con un certo difetto nella mia organizzazione è chiaro che quell' "oggetto" si mostrerà a me come immagine percettiva in un modo che essa risentirà della presenza o assenza o carenze nei miei organi sensori piuttosto che delle mie vie nervose ecc....



Le mie immagini percettive sono quindi anzitutto soggettive. Il riconoscimento
del carattere soggettivo delle nostre percezioni può facilmente
far dubitare se a base di esse vi sia veramente qualcosa di
oggettivo.

Cita:
Rob 12/10/12:
e qua stà la genialata di Steiner!
Infatti NON abbiamo appena detto che le immagini percettive risentono del soggetto in quanto egli si trovi in un posto piuttosto che in un altro, e a seconda di come esso sia organizzato (ad esempio a livello sensoriale)?
Quindi, verrebbe da dire che... queste percezioni... sono SOGGETTIVE!
E invece no! Per quanto esse siano condizionate dal soggetto (in modo matematico e qualitativo, appunto), purtuttavia non si deve fare l' errore di credere che le percezioni in sé siano SOGGETTIVE, in quanto Steiner ci dimostrerà, ora, che essendo esse "trattate" dal "pensare" (evidentemente il pensare ha una attinenza con gli oggetti se questo gli è possibile fare: prenderli da là fuori e consegnarceli come percezioni!), ed essendo il pensare stesso oggettivo, ecco che quanto si presenta a noi in modo soggettivo, in realtà ha carattere di oggettività!


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 Oggetto del messaggio: Re: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 12/10/2012, 19:48 

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(Cap 4 - 3° parte di 8 )

Quando sappiamo che una percezione, ad es., quella del
colore rosso o di una certa nota musicale, non è possibile senza una
determinata conformazione del nostro organismo, possiamo facilmente
esser portati a credere ch'essa, prescindendo dal nostro organismo soggettivo,
non abbia consistenza alcuna, e che senza l'atto del percepire
del quale è oggetto, essa non abbia alcun genere di esistenza.

Cita:
Rob 12/10/12:
Addirittura si è arrivati a pensare che proprio a causa del carattere di soggettività, dovuto alla organizzazione ed alla presenza del soggetto PER la percezione stessa!, addirittura neppure vi possa essere un "oggetto"; ma che tutto, come la stessa percezione, sia SOGGETTIVO; la stessa realtà, la quale si presenta a me in modo soggettivo, potrebbe essere della stessa natura! Cosa sappiamo infatti che davanti alla nostra soggettiva percezione ci sia VERAMENTE un oggetto-in-sè davanti a noi? Come si può veramente dire che NON esista SOLO quella SOGGETTIVITA' che è l' unica cosa di cui possiamo averne esperienza? Se è lo SPIRITO che crea la percezione, allora non c'è un concomitante mondo materiale a fargli da contraltare; allora anche il mondo materiale in realtà è SPIRITUALE; e pertanto a questo punto neppure più serve che esista (come mondo materiale)! Se esso è della stessa natura infatti (spirituale) della mia percezione, allora è sufficiente che vi sia la percezione!



Quest'idea
ha trovato un classico sostenitore in George Berkeley, il quale riteneva
che l'uomo, dal momento in cui fosse divenuto cosciente del significato
del soggetto per la percezione, non potesse più credere a un
mondo esistente senza lo spirito cosciente. Egli dice: « Alcune verità
sono così vicine a noi e così evidenti, che basta aprire gli occhi per
vederle. Una di queste è, secondo me, l'importante principio che tutto il
coro dei cieli e tutto ciò che appartiene alla terra, in una parola tutti i
corpi che compongono il grande edificio del mondo, non hanno sussistenza
alcuna al di fuori dello spirito: che il loro essere consiste nel
loro venir percepiti o venir conosciuti: e che quindi, fino a che non
vengono realmente percepiti da me o non esistono nella mia coscienza
né in quella di un altro spirito creato, essi, o non esistono affatto, o
esistono solo nella coscienza di uno spirito eterno ». Secondo questa
maniera di vedere, della percezione non ci resta niente, se si toglie il
venir percepita. Non ci sono colori quando non se ne vedono: non ci
sono suoni, quando non se ne odono. Al pari dei colori e dei suoni non
esistono né estensione né forma né movimento al di fuori dell'atto percettivo.
In nessun caso noi vediamo soltanto estensione o soltanto forma;
esse sono sempre congiunte col colore o con altre proprietà indiscutibilmente
dipendenti dalla nostra soggettività. Se queste ultime
scompaiono insieme con la nostra percezione, deve avvenire lo stesso
delle prime, che sono loro legate.

Cita:
Rob 12/10/12:
Esiste quindi solo la percezione spirituale; non serve che "esista" un concomitante mondo materiale che gli fa da base! E' Dio stesso che mi dà la percezione, non serve un mondo materiale a fare da substrato di essa.


All'obiezione che - se anche figura, colore, suono, ecc. non hanno
esistenza se non entro l'atto percettivo - vi debbano pur essere cose che
esistono senza la coscienza, e a cui le immagini percettive coscienti
son simili, i seguaci di Berkeley rispondono: « Un colore può esser
simile solo ad un colore, e una figura a una figura. Le nostre percezioni
possono esser simili solo a nostre percezioni, e a nessuna altra cosa.

Cita:
Rob 12/10/12:
che non fa veramente una piega!
Infatti, se abbiamo visto che nella dualità (materia dell' oggetto e spirito del soggetto e della percezione) NON può esistere alcun tipo di ponte, per cui ancora non ci si spiega veramente come una "sedia" fisica possa diventare la "sedia" percepita a livello di "soggetto" ossia a livello ormai immateriale e quindi spirituale, allora viene subito da risolvere la questione col monismo spirituale: esiste SOLO lo spirito! Il colore che percepisco può essere solo un colore! (non un' onda vibratoria fisica), la figura che percepisco può essa solo essere una figura (e non qualcosa di materiale che si dà a me poi come figura!). Se questo "ponte" tra materia e spirito non c'è, è chiaro che qualcuno che è CERTO delle proprie percezioni, ossia del proprio mondo del soggetto e dello spirito, possa concludere che quello che si crede essere il mondo "materiale" in realtà non esista! NON è la sedia fisica che diventa immateriale e spirituale nella nostra coscienza! Bensì è la sedia immateriale e spirituale che è nella nostra coscienza che MAI potrà diventare una sdia "materiale " e "fisica" là fuori! E dunque, quella sedia fisica e materiale NON esiste proprio!
Questa è la soluzione proposta quindi da Berkeley e dai monisti spiritualisti.


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 Oggetto del messaggio: Re: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 12/10/2012, 19:59 

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(Cap 4 - 4° parte di 8)

Anche ciò che chiamiamo un oggetto, non è che un gruppo di percezioni,
legate fra loro in un determinato modo. Se da una tavola tolgo
via forma, colore, estensione, ecc., cioè tutto quel che è solo mia percezione,
non ne resta nulla ». La conseguenza logica di un tal modo di
vedere è l'affermazione che: « Gli oggetti delle mie percezioni esistono
solo grazie a me, cioè in quanto e per quanto io li percepisco: scompaiono
collo scomparire della percezione e non hanno senso senza di
essa. Al di fuori delle mie percezioni, io non so nulla e non posso saper
nulla di nessun oggetto ».
Contro quest'affermazione non c'è niente da opporre, finché si considera
solo in linea generale la circostanza che l'organizzazione del
soggetto concorre a determinare le percezioni. Ma la cosa si presenterebbe
essenzialmente diversa quando fossimo in grado di indicare qual
è la funzione che il nostro percepire ha nella formazione di una percezione.
Sapremmo allora che cosa avviene nella percezione durante il
percepire, e potremmo anche determinare che cosa vi deve già essere
prima che venga percepita.
Con ciò la nostra attenzione è trasportata dall'oggetto della percezione
al soggetto della medesima. Io percepisco non solo le altre cose,
ma anche me stesso. La percezione di me stesso ha anzitutto questo
contenuto: ch'io sono ciò che permane di fronte al continuo andirivieni
delle immagini percettive. La percezione dell'io può sempre sorgere
nella mia coscienza mentre ho altre percezioni. Quando m'immergo
nella percezione di un dato oggetto, ho dapprincipio coscienza solo di
esso; a ciò può aggiungersi anche la percezione di me stesso: allora
non rimango cosciente soltanto dell'oggetto, ma lo divengo anche della
mia personalità, che si contrappone all'oggetto e lo osserva. Non vedo
soltanto un albero, ma so anche che sono io che lo vedo. Riconosco
inoltre che un processo avviene in me, mentre osservo l'albero. Quando
l'albero scompare dal mio campo visivo, nella mia coscienza rimane
una traccia del processo: un'immagine dell'albero. Quest'immagine,
durante la mia osservazione, si è legata col mio sé. Il mio sé si è arricchito
: il suo contenuto ha assorbito un nuovo elemento. Tale elemento,
io lo chiamo la mia rappresentazione dell'albero. Non arriverei mai a
parlare di rappresentazioni, se non le sperimentassi nella percezione di
me stesso. Le percezioni andrebbero e verrebbero: io le lascerei passare.
Solo per il fatto che percepisco me stesso e osservo che con ogni
percezione si modifica anche il contenuto di me stesso, mi vedo obbligato
a collegare l'osservazione dell'oggetto col mio proprio cambiamento
di stato e a parlare di una mia rappresentazione.

Cita:
Rob 12/10/12:
e finalmente siamo arrivati alle "rappresentazioni"; quanti termini nuovi per chi non viene da studi filosofici ecc... Effettivamente non è semplice questa lettura per un profano; occorre veramente impegnarsi nel cercare di capire; e senza capire non potremmo neppure sapere cosa stia dicendoci Steiner e se ci possiamo, quindi, dirci d' accordo o meno con quanto propone alle nostre personali riflessioni!
Dunque le "immagini percettive" sono quanto dell' "oggetto" io conosco nella mia coscienza; questo è uno specchio che riflette sempre oggetti in modo soggettivo (qualitativo e matematico!), pertanto "percezioni". Abbiamo visto che il soggetto stesso può percepirsi nel mentre altri oggetti vengono percepiti. Io posso avere coscienza di me, del mio sé, nel mentre percepisco gli altri oggetti.
E posso fare questo tipo di esperienza: quando quell' oggetto si toglie dal mio campo visiovo e quando pertanto la sua percezione viene a meno... tuttavia ciò che resta è la relazione che quel tipo di percezione ha col mio sé, con la percezione di me stesso. L' immagine dell' albero rimane in me, anche senza avere più l' albero di fronte, perché quell' immagine si è legata in qualche modo al mio sé. Ossia di fronte all' oggetto si ha che la percezione avvertita nella coscienza, rimanda verso l' oggetto stesso, verso l' esterno cioè, la percezione! Ciò che è nel campo della mia anima, della mia coscienza viene riproiettato subito all' esterno, su quanto ha prodotto quella percezione!
Ma dal momento che quell' oggetto scompare alla vista, allora non è più possibile riproiettare ciò "sull'" oggetto al di fuori (che è sparito), ma l' immagine dell' albero che resta in me sarà solo possibile come una trasformazione di me stesso! Il mio "sé" assorbe in sé quell' immagine percettiva e pertanto essa solo così può continuare a vivere, in me. Altrimenti non esisterebbero rappresentazioni ma solo percezioni; la percezione necessita di un concomitante oggetto su cui riversarsi, la rappresentazione invece no! perché essa si è riversata sul proprio sé, ed è quindi solo in questo modo che è possibile ritrovare in noi ancora questo tipo di percezione: non più legata all' oggetto, ma legata al nostro sé. Il nostro sé pertanto è passibile di arricchirsi con tutte le rappresentazioni, ossia con tutte le percezioni che abbiamo avuto e che si sono "legate" al nostro sé, invece di essere semplicemente prodotte e poi buttate via. La coscienza è uno specchio che rispecchia gli oggetti che vi si pongono di fronte: via uno sotto un altro; ma allo stesso tempo riflette anche il sé; ed ogni immagine percettiva che giunge nello specchio per poi uscirne, è passibile che vada ad incidersi nell' altra immagine percettiva, quella del sé, e pertanto vi sarà, di mano in mano che lo specchio rifletterà nuove percezioni, un "arricchimento" in quell' altra percezione che è il sé; una parte va via con l' oggetto ed una parte rimane come rappresentazione nel proprio sé.
La rappresentazione è l' immagine percettiva che ci resta dentro.


La rappresentazione la percepisco nel mio sé allo stesso modo in
cui percepisco colori, suoni; ecc. negli altri oggetti. Posso ora anche
distinguere questi altri oggetti che stanno di fronte a me col nome di
mondo esteriore, e il contenuto della percezione di me stesso col nome
di mondo interiore. Il disconoscere i rapporti fra rappresentazione e
oggetto ha portato i più grandi equivoci nella filosofia moderna. Si è
messa in evidenza la modificazione che avviene in noi, e la percezione
di tale modificazione, e si è perduto completamente di vista l'oggetto
che era causa della modificazione. Si è detto: « Noi non percepiamo gli
oggetti, ma solo le nostre rappresentazioni. Io non posso saper nulla
della tavola in sé, che è oggetto della mia osservazione, ma solo del
cambiamento che avviene in me mentre percepisco la tavola ».


Cita:
Rob 12/10/12:
Ecco dove vuole arrivare Steiner! Che la rappresentazione, ossia la "modifica" del nostro sé in quanto percepibile, per esistere ha bisogno degli "oggetti" di percezione (quelli del mondo esterno!). La rappresentazione per essere possibile ha bisogno dell' "oggetto" (che viene e se ne va); ossia ci deve essere "qualcosa" che si è rispecchiato nel campo di coscienza e che ha in qualche modo quindi modificato e quindi arrichito e quindi creato una rappresentazione nel nostro sé.
Ma mentre Berkeley semplicemente negava che esistesse l' oggetto e riferiva le modificazioni del sé, le proprie percezioni quindi senza oggetti, alla Potenza di Dio che ciò in qualche modo suscitava, ora in Kant non viene detto che non "esista" l' oggetto! Certo, l' oggetto esiste! Ma la percezione non può dire niente di esso; noi cioè con la percezione NON possiamo dire nulla dell' oggetto che è a base della percezione stessa; ma possiamo invece DIRE ciò che quella percezione (di cui non sappiamo la relazione con l' oggetto che l' ha in qualche modo innescata) ha prodotto in NOI! Solo di ciò che succede in noi, noi siamo autorizzati a parlare; e ciò che in noi succede è la percezione del nostro sé nella relazione con la percezione dell' oggetto inconoscibile. Noi non possiamo conoscere l' "oggetto" ma possiamo conoscere noi stessi in ciò che sono le nostre rappresentazioni, ossia le nostre modificazioni del sé, provocate dalla percezione dell' oggetto..


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 Oggetto del messaggio: Re: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 12/10/2012, 20:06 

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(Cap 4 - 5° parte di 8)

Questa
concezione non si deve confondere con quella di Berkeley prima menzionata.
Berkeley afferma la natura soggettiva del mio contenuto percettivo,
ma non dice ch'io non possa conoscere altro che le mie rappresentazioni.
La mia conoscenza rimane per lui limitata alle mie rappresentazioni,
in quanto egli ritiene che non vi siano oggetti al di fuori
delle rappresentazioni. Ciò ch'io vedo come una tavola, non esiste più -
nel senso di Berkeley - appena dirigo lo sguardo da un'altra parte. Perciò
Berkeley fa derivare le mie percezioni direttamente dalla potenza
di Dio. Io vedo una tavola, perché Dio risveglia in me tale percezione.
Berkeley non conosce quindi altri esseri reali se non Dio e gli spiriti
umani. Ciò che noi chiamiamo mondo, esiste solo dentro gli spiriti.
Quel che l'uomo semplice chiama mondo esterno, natura corporea, non
esiste per Berkeley. Contro questa concezione sta quella kantiana ora
dominante, che limita la nostra conoscenza del mondo alle nostre rappresentazioni,
non perché ritenga non vi possano essere altre cose al di
fuori di dette rappresentazioni, ma perché ritiene che noi si sia organizzati
in modo da poterci render conto soltanto delle modificazioni
del nostro proprio sé, non però delle cose in sé che producono queste
modificazioni. Dalla circostanza ch'io mi rendo conto soltanto delle
mie rappresentazioni, i kantiani non deducono che nessun'altra esistenza
sia possibile al di fuori di esse rappresentazioni, ma soltanto che il
soggetto non può accogliere un'altra esistenza direttamente in sé ma «
può soltanto per mezzo dei suoi pensieri soggettivi, immaginarla, fingerla,
pensarla, conoscerla - forse neppure conoscerla! » (cfr. O. Liebmann,
Dell'analisi della realtà, p. 28). Con ciò credono di dire qualcosa
di assolutamente certo, ed immediatamente evidente, che non
abbisogna di dimostrazioni. « i1 primo punto fondamentale che il filosofo
deve riconoscere con chiarezza e profondità, è quello che la nostra
conoscenza, il nostro sapere non si estende da principio al di là delle
nostre rappresentazioni. Le nostre rappresentazioni sono l'unica cosa
che noi direttamente apprendiamo e sperimentiamo; e appunto perché
le apprendiamo direttamente, il dubbio più radicale non può strapparci
la loro conoscenza. Invece la conoscenza che va al di là delle nostre
rappresentazioni - prendo la parola rappresentazioni nel senso più lato,
facendovi rientrare qualunque fatto psichico - non è protetta contro il
dubbio. Perciò sul principio del filosofare bisogna porre esplicitamente
come incerto ogni sapere che vada al di là delle rappre sentazioni ».

Cita:
Rob 12/10/12:
Per Berkeley la conoscenza è solo data dalle rappresentazioni che spiritualmente avvengono in me, e questo perché SOLO esse esistono! NON la materia là fuori.
Invece per Kant la conoscenza umana è "limitata" sempre ancora e solo alle rappresentazioni, ma NON perché là fuori non esistanto oggetti! Ma perché di essi NOI non possiamo avere altro che la "SOGGETTIVA" percezione! E dato il carattere soggettivo di tali percezioni, non possiamo veramente dirci nulla che possa essere "reale" concreto, oggettivo!
Non possiamo pertanto esprimere nulla che NON parta da noi stessi! Ossia dalle nostre rappresentazioni; ossia in quanto avvertiamo in noi come modificazioni del nostro sé.
Apprendiamo "direttamente" ossia da noi stessi le percezioni sul nostro sé! E l' oggetto si instilla "indirettamente" modificando il nostro sé: questo è tutto quanto possiamo sapere e vedere veramente dell' oggetto! Che cosa egli causi nella percezione di noi stessi! L' immagine percettiva dell' albero quando non è più davanti ai miei occhi diventa rappresentazione, ossia "modificazione" del sé! Di questo solo posso parlare! NON dell' albero che è davanti ai miei occhi la cui percezione si trasforma in rappresentazione; NON conosco veramente l' albero ma conosco solo la rappresentazione che quell' oggetto causa in me: ossia la "rappresentazione" dell' albero! (che NON è MAI l' albero, pertanto)


Così comincia Volkelt il suo libro sulla Teoria kantiana della conoscenza.
Quel che ivi è esposto come verità immediata ed evidente, è
però in realtà il risultato di un ragionamento che procede come segue:
« L'uomo primitivo crede che gli oggetti, quali egli li percepisce, esistano
anche al di fuori della sua coscienza. Ma la fisica, la fisiologia e
la psicologia sembrano insegnare che per le nostre percezioni è necessario
il nostro organismo, e che quindi delle cose non possiamo sapere
se non quanto ci fornisce il nostro organismo Le nostre percezioni sono
perciò modificazioni del nostro organismo, non cose in sé ». I1 ragionamento
qui accennato è infatti quello che, secondo Edoardo von
Hartmann, deve dimostrare come noi non possiamo avere una conoscenza
diretta se non delle nostre rappresentazioni (cfr. l'opera sua
Problema fondamentale della teoria della conoscenza, pp. 16-40).
Poiché noi troviamo fuori del nostro organismo delle vibrazioni dei
corpi e dell'aria che ci si presentano come suono, se ne deduce che ciò
che chiamiamo suono non è altro che una reazione soggettiva del nostro
organismo di fronte a quelle vibrazioni del mondo esteriore. Parimenti
si deduce che colore e calore sono solo modificazioni del nostro
organismo; in particolare si è d'opinione che questi due generi di percezioni
sono determinati in noi dall'azione di processi del mondo esteriore,
completamente diversi da ciò che è esperienza di calore o di colore.
Quando questi processi eccitano i nervi della mia pelle, ho la percezione
soggettiva del calore; quando colpiscono il nervo visivo, percepisco
luce e colore. Luce, colore e calore sono dunque il modo di
reagire dei miei nervi sensori agli stimoli esterni. Anche il senso del
tatto non mi trasmette gli oggetti del mondo esterno, ma soltanto le
mie proprie reazioni. Secondo la fisica moderna, si potrebbe credere
che i corpi siano composti di particelle infinitamente piccole chiamate
molecole, e che queste molecole non siano immediatamente a contatto
le une con le altre, ma abbiano certe distanze fra loro. Fra di esse vi è
lo spazio vuoto, attraverso il quale agiscono le une sulle altre per mezzo
di forze di attrazione e di repulsione. Quando io avvicino la mia
mano ad un corpo, le molecole della mia mano non toccano affatto le
molecole del corpo direttamente, ma rimane fra mano e corpo una certa
distanza, e ciò ch'io sento come resistenza del corpo non è che l'effetto
della forza repulsiva che le sue molecole esercitano sulla mia mano.
Io rimango in tutto e per tutto al di fuori del corpo, percepisco solo
la sua azione sul mio organismo.
A completamento di queste considerazioni, accenneremo alla teoria
di J. Müller (1081-1858) sulle cosiddette energie specifiche dei
sensi. Consiste in ciò, che ogni senso ha la particolarità di rispondere a
qualsiasi stimolo esterno in una sola determinata maniera. Quando si
esercita un'azione sul nervo ottico si ha sempre una percezione luminosa,
tanto se l'eccitazione del nervo è prodotta da ciò che chiamiamo
luce, quanto se è prodotta da una pressione meccanica o da una corrente
elettrica. Viceversa uguali stimoli esterni risvegliano nei diversi sensi
percezioni diverse. Da ciò sembra discendere che i nostri sensi ci
possono fornire solo ciò che in essi medesimi si produce, ma nulla del
mondo esterno: essi determinano le percezioni, ciascuno secondo la
sua propria natura.

Cita:
Rob 12/10/12:
quindi quello che compare come percezione, è il risultato di quanto l' uomo stesso è in grado di produrre come reazione al' oggetto che gli si para di fronte! Magari si tratta di onde e.m., oppure di vibrazioni ed ecco che "esse" si "trasformano" ad esempio nel colore "rosso" oppure in un determinato suono. Il suono, il colore rosso sono prodotti da NOI, e nulla hanno a che vedere con la natura dello stimolo che ha prodotto ciò!
Ma la cosa interessante è che di salti mortali (o quantici) se ne fanno tanti, non solo da quando l' oggetto con le sue vibrazioni od onde arriva a "stimolare" l' organo di senso; ma ciò che si produce nell' orecchio o nell' occhio, ad esempio, poi deve trasformarsi in qualcosa d' altro affinchè ciò possa percorrere le relative vie nervose fino al cervello; e qua si riversa qualcosa che ancora una volta origina qualcosa di ancora diverso! Come "pensare" quindi che in questo passare da una stazione all' altra, possa venire mantenuta l' entità vera dell' oggetto primigenio? E' come uno che passa parola ad un altro e così di seguito: se partiva la parola "mela" di sicuro ciò che arriva sarà la parola "pera"! A parte gli scherzi, finalmente l' ultimo passaggio, che avviene per di più con un passaggio di stato, da "materia" (cervello) a "spirito" (anima – coscienza) - e quindi ancora una volta avviene quel famoso salto del fossato per cui qualcosa di materiale (cerebrale) si collega a qualcosa di spirituale (anima) – ci darà conto finalmente e per la prima volta del colore "rosso" o dell' oggetto "mela"; ma come possiamo dire che "quelli" che così si presentano alla nostra "anima" come percezione siano VERAMENTE il colore "rosso" e la "mela" dell' oggetto che abbiamo di fronte? Ciò che posso solo dire è ciò che questo colore e questo oggetto (per nulla reali quindi) esercitano su di me! Sul soggetto quindi percepiente = fino a che c'è di fronte l' oggetto e pertanto la percezione "viene" riversata sull' oggetto stesso;
o sul soggetto in cui RESTA l' immagine percettiva la quale si è quindi introiettata a questo punto. Noi possiamo SOLO parlare di noi stessi, dell' esperienza soggettiva che facciamo, e non dell' "oggetto" che dà luogo a tutto ciò.


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 Oggetto del messaggio: Re: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 12/10/2012, 20:09 

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(Cap 4 - 6° parte di 8)

La fisiologia insegna che non si può però parlare neppure di una
diretta conoscenza dell'azione che gli oggetti esercitano sui nostri organi
di senso. Quando il fisiologo studia i processi nel nostro proprio
corpo, trova che già negli organi di senso le azioni delle vibrazioni
esterne vengono trasformate nel modo più vario. Ciò appare nel modo
più evidente nell'occhio e nell'orecchio, organi entrambi assai complicati,
che trasformano sostanzialmente lo stimolo esterno prima di trasmetterlo
al nervo corrispondente. Dall'estremità periferica del nervo
lo stimolo così trasformato viene poi inviato al cervello, del quale anzi
tutto devono venir eccitati i centri sensori. Si vede dunque che il processo
esterno, prima di arrivare alla coscienza, subisce una serie di
trasformazioni Quel che avviene nel cervello è collegato col processo
esterno per mezzo di tanti processi intermedi, che non si può più parlare
di similitudine fra punto di partenza e punto d'arrivo. Ciò che alla
fine il cervello comunica all'anima, non è né il processo esterno né il
processo negli organi di senso, ma soltanto il processo nell'interno del
cervello. Anzi neppure quest'ultimo l'anima percepisce direttamente.
Ciò che alla fine troviamo nella coscienza, non sono processi cerebrali,
ma sensazioni. La mia sensazione del rosso non ha alcuna similitudine
col processo che avviene nel cervello quando io sento il rosso. A sua
volta quest'ultimo si presenta nell'anima come effetto, e viene soltanto
causato dal processo cerebrale. È per ciò che Hartmann dice (Problema
fondamentale della teoria della conoscenza p. 37): « Quel che il
soggetto percepisce, sono sempre solo modificazioni delle sue proprie
condizioni psichiche, e null'altro ». Ma quando io ho le sensazioni, ci
corre ancora molto prima che esse siano raggruppate in ciò ch'io percepisco
come oggetto. Possono ad es. essermi comunicate dal cervello
solo sensazioni isolate. Le sensazioni di durezza o di morbidezza mi
vengono comunicate dal senso del tatto, quelle di colore e di luminosità
dal senso della vista. Eppure esse si ritrovano riunite in un unico e
medesimo oggetto. Questa riunione deve quindi essere effettuata per
prima dall'anima stessa. Cioè l'anima è quella che riunisce insieme in
corpi le sensazioni isolate trasmessele dal cervello. Il mio cervello mi
fornisce isolatamente, per vie diverse, le sensazioni visive, tattili e uditive
che poi l'anima riunisce nella rappresentazione « tromba ». Questo
termine ultimo (rappresentazione della tromba) di un processo, è ciò
che alla mia coscienza è dato come assolutamente primo.

Cita:
Rob 12/10/12:
non c'è verso! E' l' anima che mi porge a livello di coscienza l' immagine percettiva "tromba".
E tra questa immagine che scaturisce dalla mia "anima" e l' "oggetto" che origina questo tipo di immagine, c'è veramente un abisso! E pertanto ha ragione von Hartmann e Kant quando parlano della "cosa-in-sè" come di una kasba, di un meteorite assolutamente inscalfibile!
A meno che ora Steiner non giochi una intuizione veramente geniale e capovolga il tavolo che sembrava reggersi in piedi così tanto bene!


Non vi si può
ritrovare più nulla di ciò ch'è fuori di me e che originariamente aveva
fatto un'impressione sui miei sensi. L'oggetto esterno è andato completamente
perduto, passando al cervello e dal cervello all'anima.
È difficile trovare nella storia dello spirito umano un altro edificio
di pensiero messo insieme con maggiore acume, e che pure, sotto un'analisi
più minuta, precipita nel nulla. Guardiamo un po' più da vicino
come sorge. Si parte sulle prime da ciò che è dato alla coscienza ingenua,
cioè dalla cosa percepita. Poi si fa vedere che quanto si trova in
questa cosa, non esisterebbe per noi se non avessimo i sensi. Senza
occhio, nessun colore. Quindi il colore non esiste ancora in ciò che
agisce sul l'occhio: sorge soltanto dall'azione reciproca fra occhio e oggetto
Questo dunque è senza colore. Ma neppure nell'occhio esiste il
colore; nell'occhio esiste nn processo chimico o fisico, che poi dal nervo
è comunicato al cervello, e ivi dà origine ad un altro processo. Ma
neppur quest'altro processo è ancora il colore. Soltanto per mezzo del
processo cerebrale il colore viene suscitato nell'anima. Ma non entra
ancora nella coscienza, anzi per mezzo dell'anima viene trasportato
verso l'esterno, sopra un corpo. In questo corpo finalmente io credo di
percepirlo. Abbiamo percorso un circolo completo. Siamo divenuti
coscienti di un corpo colorato. Questo è il primo punto. Ora comincia
l'opera del pensiero. Se io non avessi occhi, il corpo sarebbe per me
senza colore. Quindi non posso collocare il colore nel corpo. Andiamo
a cercare dove sta. Lo cerco nell'occhio: invano. Nel nervo: invano.
Nel cervello: ancora invano. Nell'anima: qui lo trovo invero, ma non
congiunto col corpo. Il corpo colorato lo ritrovo soltanto lì, donde ero
partito. Il circolo è chiuso. Io credo di riconoscere come un prodotto
della mia anima ciò che l'uomo ingenuo pensa esistere fuori nello spazio.
Finché ci si ferma qui, tutto sembra in ordine. Ma invece è necessario
ricominciare ancora una volta da principio.

Cita:
Rob 12/10/12:
prima ha ri-creato l' edificio grandioso su cui si basa il kantismo, ha sbugiardato il realista ingenuo (come caspita fa a credere veramente che la "mela" sia "rossa" quando "rosso" è una qualità che si inventa l' anima?... ed anche la "mela" se la inventa l' anima?!) e tutto sembra perfettamente in odine e logicamente esposto.
Devo veramente riconoscere che a questo punto poche persone sarebbero state in grado di ri-percorrere una volta ancora il percorso, per trovare che non è tutto così in ordine come si pensava!
Giusto il tenente Colombo forse ce l' avrebbe fatta ;-)


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 Oggetto del messaggio: Re: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 13/10/2012, 11:25 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
Messaggi: 99
(Cap 4 : 7° parte di 8)

Infatti fino ad ora, ho
trafficato con una cosa: la percezione esterna, di cui prima, come uomo
ingenuo, avevo avuto un'idea completamente falsa. Avevo prima creduto
che esistesse oggettivamente così come la percepivo. Ora mi avvedo
ch'essa scompare con lo scomparire della mia rappresentazione, ch'essa
è solo una modificazione dello stato della mia anima. Ho allora io ancora
diritto di partire da essa, nelle mie considerazioni? Posso io dire
ch'essa agisce sulla mia anima? D'ora in poi la tavola, che prima avevo
creduto agisse su me e risvegliasse in me una rappresentazione, devo
trattarla come rappresentazione a sua volta. Logicamente sono allora
puramente soggettivi anche gli organi di senso e i relativi processi.
Non ho diritto di parlare di un occhio reale, ma solo della mia rappresentazione
dell'occhio. Lo stesso si dica dei processi nei nervi conduttori
e nei centri cerebrali e persino del processo nell'anima, per mezzo
del quale dal caos delle molteplici sensazioni si costruiscono le cose.
Se, supposto giusto il primo circolo descritto dal mio pensiero, percorro
ancora una volta i membri del mio atto conoscitivo, questo appare
come una trama di rappresentazioni, che però come tali non possono
agire le une sulle altre. Non posso dire: «La mia rappresentazione dell'oggetto
agisce sulla mia rappresentazione dell'occhio, e da questa
azione reciproca sorge la rappresentazione del colore ». Ma non ho
neppur bisogno di dirlo: ché appena vedo chiaramente che i miei organi
di senso e la loro attività, che i processi nei miei nervi e quelli nella
mia anima non possono venirmi dati che per mezzo della percezione,
risulta per me evidente anche l'assoluta assurdità di tutto il ragionamento
precedente. È vero che per me non vi è percezione senza il corrispondente
organo di senso ma non vi è neppur organo di senso senza
percezione. Dalla mia percezione della tavola posso passare all'occhio
che la vede e ai nervi tattili che la toccano; ma ciò che avviene nell'occhio
e nei nervi tattili, io non lo posso a sua volta apprendere che dalla
percezione. E qui mi accorgo subito che nel processo che si compie
nell'occhio non vi è traccia di similitudine con ciò che percepisco come
calore. Non posso distruggere la mia percezione del colore col mostrare
il processo che avviene nell'occhio mentre vi si produce tale percezione.
Né mi è possibile di ritrovare il colore nei processi dei miei nervi
e dei mio cervello. Non riesco che a collegare nuove percezioni nell'interno
del mio organismo con le prime che l'uomo ingenuo colloca
fuori del suo organismo: non faccio che passare da una percezione ad
un'altra.
Inoltre, l'intera serie di deduzioni contiene un salto. Io sono in grado
di seguire quel che avviene nel mio organismo fino ai processi nel
cervello, pur divenendo i miei assunti sempre più ipotetici quanto più
mi avvicino ai fenomeni centrali del cervello. Ma la strada dell'osservazione
esteriore finisce col processo nel mio cervello, e precisamente
con quello che io percepirei se, con metodi ed apparecchi fisici, chimici,
ecc. potessi trattare il cervello. La strada dell'osservazione interiore
comincia d'altra parte con la sensazione e arriva fino alla costruzione
delle cose per mezzo del materiale delle sensazioni. Al passaggio dal
processo cerebrale alla sensazione la strada dell'osservazione è interrotta.
La concezione esposta dianzi, che si qualifica come idealismo critico,
in contrasto col punto di vista della coscienza primitiva, ch'essa
chiama realismo primitivo, commette l'errore di prendere una percezione
come rappresentazione, e di prender le altre proprio nello stesso
senso in cui le prende il realismo primitivo, ch'essa apparentemente
combatte. Vuole dimostrare il carattere rappresentativo delle percezioni,
assumendo allo stesso tempo, in modo ingenuo, le percezioni del
proprio organismo come fatti di valore oggettivo; e in mezzo a tutto
ciò non vede che confonde insieme due campi dell'osservazione, fra i
quali non può trovare anello di congiunzione.
L'idealista critico può combattere il realismo primitivo, solo asserendo,
alla maniera stessa del realismo primitivo, che il nostro proprio
organismo ha un'esistenza oggettiva. Dall'istante in cui diviene cosciente
della perfetta omogeneità delle percezioni del nostro organismo
con quelle che vengono considerate dal realismo primitivo come esistenti
obiettivamente, egli non può più appoggiarsi sulle prime come
su terreno sicuro. Dovrebbe considerare anche il suo organismo soggettivo
come un mero complesso di rappresentazioni. Ma con ciò perde
la possibilità di concepire il contenuto del mondo percepito, come
prodotto dell'organismo spirituale. Si dovrebbe supporre che la rappresentazione
« colore » sia solo una modificazione della rappresentazione
« occhio ». Il cosiddetto idealismo critico non si sostiene che chiedendo
un prestito al realismo primitivo: e quest'ultimo non si combatte
che mantenendo arbitrariamente validi in un altro campo i suoi propri
presupposti.
Da ciò risulta chiaro che, per mezzo di ricerche entro il campo della
percezione, l'idealismo critico non può venir dimostrato né la percezione
può venire spogliata del suo carattere oggettivo.


Cita:
Rob 13/10/12:
dunque la percezione dell' oggetto non è "reale", essa infatti esita nella mia rappresentazione, la quale è veramente reale. Ma si crede ancora che tale rappresentazione sia comunque derivata dall' oggetto reale (cosa-in-sè) che per le varie stazioni transita fino al cervello e qua si metamorfosa ulteriormente nella rappresentazione che ne ho nell' anima. Ma se ciò che vedo è solo la rappresentazione "mela" e non la mela stessa, allora anche il mio occhio che percepisco è solo una rappresentazione del mio occhio, e se potessi seguire la percezione sempre metamorfosata lungo le vie nervose dovrei dire che anche di esse si tratterebbe in realtà solo di una rappresentazione delle vie nervose e poi quindi dello stesso cervello. Ossia avremmo solo una serie di rappresentazioni, ciascuna delle quali non si sa' in che modo origini dall' altra, mancando il filo conduttore che è la percezione reale, un percorso oggettivo!
Infatti non si può dire che non sia vera la percezione dell' oggetto e che poi però tutto il percorso percettivo sia esso stesso oggettivo! L' "idealista critico" ricadrebbe, ad essere onesto e rigoroso fino in fondo, nella concezione del monismo spiritualistico dove tutta la realtà è solo una mia rappresentazione!
L' errore quindi sta nel prendere la percezione come una rappresentazione (!), ma poi invece oggettivizzare tutto il processo che parte dall' occhio reale, prosegue percettivamente lungo le vie nervose reali e poi nel cervello e da qui all' anima; ossia, se non è una "percezione reale" che transita, che cos'è allora? La rappresentazione? Ma essa non ha bisogno di inventarsi questi passaggi obbligati da una stazione all' altra! Quindi se la percezione è solo rappresentazione, ogni altra percezione dovrà anche essa esserlo! E quindi non potrà esistere una continuità oggettiva per la trasmissione della "cosa-in-sè". Se invece ciò che avviene nel corpo dell' uomo è reale, ecco che allora deve essere reale anche la primigenia percezione che l' oggetto dà di sé!
Insomma una rappresentazione è qualcosa che nasce dal fatto che vi è una modificazione!
Ma vi dovrebbe essere una continuità in "ciò che modifica"; che valore posso dare a ciò se poi cò che risulta è sempre e solo essere "rappresentazione"? "rappresentazione" dell' oggetto (cosa-in-sè) che si rapporta alla "rappresentazione" occhio, che si rapporta alla "rappres..": ma se si tratta solo di un gioco di rappresentazioni... come si garantisce la RELAZIONE che c'è tra l' OGGETTO (cosa-in-sè) e la mia RAPPRESENTAZIONE che ne ho? Cosa c'è di "oggettivo" che passa dall'occhio alle vie nervose ecc... che POSSA mantenere questo tipo di RELAZIONE?
Ma poi, perché all' interno del corpo umano si concepisce una "oggettività" che invece si nega per l' oggetto stesso? L' oggetto è INCONOSCIBILE (conosco solo la mia rappresentazione di esso),
ma invece è "reale", conscibile ed oggettivo il mio occhio, la mia man ecc... perché questo diverso trattamento? Oppure ANCHE il mio occhio, ANCHE la mia mano sono "soltanto" rappresentazion i in me... ed alora che ne è del filo che dovrebbe ameno unire l' oggetto esterno a quella che credo essere la rappresentazione di esso a livello di anima?
Qua Steiner picchia duro e dice ai kantiani: non si tratta "SOLO" di avere un vocabolario che serve a tradurre l' oggetto con la rappresentazione! Non si tratta di dire "mela" ---) "apfel" si tratta di dire invece che viene proprio a meno larelazione stessa che c'è tra "mela" ed "apfel"; forse "apfel" la nostra rapfresentazione) NON c' entra proprio per nulla con "mela" che l' oggetto di fronte a noi!
E' ovvio che resta ancora però da capire come questo tipo di "oggettività" che esiste di per sé e che dà conto che la mela rossa è anche veramente ciò che si trova come oggetto di fronte a noi, possa trovare la sua giustificazione! Se il realista ingenuo ha torto, tutta la costruzione restante "oggettiva"
(l' occhio che trasmette ai nervi che...) anch' essa cade! E ci troviamo solo con il monismo spiritualistico alla Berkeley. Se invece ha ragione, e la "percezione esteriore" è realmente ciò che percepiamo nella nostra coscienza, bisognerà ulteriormente capire in che modo ciò sia possibile!
Di sicuro l' "idealismo critico" è solo un compromesso tra il realismo ingenuo ed il monismo spiritualistico dove al contrario "ogni" percezione viene negata.
In questo compromesso l' idealista una volta nega la percezione (l' oggetto) ed una volta invece l' accetta (il restante percorso)!


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 Oggetto del messaggio: Re: Capitolo IV
Messaggio da leggereInviato: 13/10/2012, 11:27 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
Messaggi: 99
(Cap 4 : 8° parte di 8)
(qua termina il testo di Steiner, intervallato da chi volesse agganciarsi ad esso per le proprie riflessioni.
Al di sotto di questo, si aprono interventi "generali" sugli argomenti del capitolo in questione)





Tanto meno si deve però considerare come evidente per sé, e non
bisognevole di dimostrazione, l'asserto che « il mondo percepito è una
mia rappresentazione ». Schopenhauer comincia l'opera sua principale,
Il mondo come volontà e rappresentazione, colle parole: « Il mondo è
una mia rappresentazione. Questa è la verità, la quale è valida per qualsiasi
essere vivente e conoscente, quantunque soltanto l'uomo possa
portarla nella riflessa coscienza astratta. Se egli realmente fa ciò, è già
entrato in lui il senno filosofico. Diviene allora per lui chiaro e sicuro
ch'egli non conosce sole né terra, ma sempre soltanto un occhio che
vede il sole e una mano che tocca la terra: che il mondo che lo circonda
esiste solo come rappresentazione, cioè solo in rapporto a un altro
che se lo rappresenta, che è egli stesso. Se mai si può stabilire a priori
una verità, è proprio questa. Ché essa è la espressione di quella forma
di ogni possibile e pensabile esperienza, che è più generale di tutte le
altre, di tempo, spazio e causalità, perché tutte queste presuppongono
quella... ». L'intero discorso naufraga contro lo scoglio da noi prima
indicato, che l'occhio e la mano sono percezioni quanto il sole e la terra.
Si potrebbe, nel senso di Schopenhauer, e servendosi del suo modo
di esprimersi, opporgli: « Il mio occhio che vede il sole e la mia mano
che tocca la terra, sono mie rappresentazioni proprio come il sole stesso
e la terra stessa », Ma che con ciò io annullo tutto il suo ragionamento,
è evidente. Ché solo il mio occhio reale e la mia mano reale,
non le mie rappresentazioni occhio e mano, potrebbero avere in sé le
rappresentazioni sole e terra come proprie modificazioni. Ma è soltanto
delle seconde, che l'idealismo critico può parlare.

Cita:
Rob 13/10/12:
è incredibile come sia lo stesso Schopenhauer ad offrire su di un vassoio d' argento la migliore spiegazione di quanto va sostenendo Steiner!
Egli infatti dice che il Sole e la Terra che percepiamo sono in realtà nostre rappresentazioni e non reali. Ma queste sono percepite con l' occhio e la mano; ma... allora l' occhio anch' esso dovrebbe essere una rappresentazione e non un "reale occhio" e la mano che tocca la terra a sua volta non una reale mano ma solo una rappresentazione della mano!
Ma vediamo che avanti di questo passo annulliamo ogni percorso che dal sole e dalla terra poi conduca alla anima/coscienza! Come possiamo dire che c'è una relazione infatti tra l' "oggetto" in sé (quale esso sia veramente) Sole e Terra, se non "oggettivizzando" il percorso interiore nell' uomo? La rappresentazione infatti di Sole e Terra che collegamento hanno veramente con Sole e Terra? Il collegamento ci sarebbe se da essi all' anima vi fosse un percorso oggettivo!
Ma come si può dire che questo debba esistere quando invece si nega oggetività invece alle percezioni di Sole e Terra? Ossia, non potrebbe essere la rappresentazione a questo punto di Sole e Terra NON quella di questi oggetti posti di fronte a noi, ma la rappresentazione dell' occhio e della mano? O delle vie nervose? O del cervello?? o dell' anima stessa???
"SE" non possiamo dirci la realtà dell' oggetto, perché dirci allora la realtà degli organi di senso? Delle vie nervose? Del cervello?? Non si vuole dare realtà all' oggetto, ed invece ne si vuole dare a tutto quanto nell' uomo conduce DALL' oggetto ALLA coscienza.
Allora se ha torto l' uomo ingenuo a dare valore alla percezione dell' oggetto, deve aver torto l' "idealista critico" a credere che lungo il corpo dell' uomo quello che transita SIA qualcosa che provenga in modo oggettivo dall' oggetto stesso per giungere fino all' anima metamofosato però in quella che è, unica cosa accessibile, la rappresentazione nell' uomo! C'è cioè una "catena" percettiva (che può modificarsi negli elementi che servono ai vari stadi della catena stessa), ma che NON perde mai il contenuto con l' oggetto! Il contenuto con l' oggetto non è perso neppure a livello di anima, ma solo metamorfosato! (NON è l' oggetto quello che conosci: è SOLO la tua rappresentazione! Ma la tua rappresentazione HA A CHE FARE cn quell' oggetot!!!).
Ma allora si potrebbe anche obiettare: non è l' occhio che ha raccolto l' informazione percettiva dell' oggetto (in modo oggettivo quindi) perché anche del nostro occhio NOI non conosciamo ALTRO che la rappresentazione che di esso abbiamo! E allora sarà la rappresentazione dell' oggetto che avrà agito sulla rappresentazione dell' occhio e così via? Si perde in tal modo ogni tipo di riferimento;
qua non si tratta più di dire che l' oggetto si dà a noi in altra forma nella rappresentazione; qua si tratta di dire che in tal modo, neppure si sà più che ciò che arrivi a coscienza abbia almeno un addentellato, una relazione, con l' (eventuale) oggetto presente là fuori!


L'idealismo critico è affatto incapace di arrivare ad afferrare il rapporto
fra percezione e rappresentazione: e non può intraprendere la
separazione accennata più sopra fra ciò che avviene nella percezione
durante il percepire e ciò che vi deve già essere prima che venga percepita.
Occorre dunque battere un'altra strada.


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