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Autore Messaggio
 Oggetto del messaggio: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 13/10/2012, 12:27 

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(Cap 5 - 1° parte di 10)

V - LA CONOSCENZA DEL MONDO
Dalle considerazioni precedenti risulta che è impossibile, per mezzo
dell'esame del contenuto della nostra osservazione, ottenere la dimostrazione
che le nostre percezioni sono rappresentazioni. Per dare
tale dimostrazione si fa vedere che se il processo della percezione avviene
nel modo che ce lo rappresentiamo, secondo gli assunti del realismo
primitivo riguardo alla costituzione psicologica e fisiologica dell'individuo,
non abbiamo a fare con cose in sé, ma soltanto colle nostre
rappresentazioni delle cose. Ma se il realismo primitivo, logicamente
svolto, conduce a risultati che sono in diretto contrasto coi suoi presupposti,
bisogna confessare che questi presupposti non possono servire
di base a una concezione del mondo e bisogna abbandonarli. In ogni
caso non è permesso di abbandonare i presupposti e di conservare le
deduzioni, come fa l'idealista critico che pone il ragionamento sopra
esposto a base della sua tesi, che il mondo è una nostra rappresentazione
(Edoardo von Hartmann dà nel suo libro Il problema fondamentale
della teoria della conoscenza un minuzioso svolgimento di tale argomentazione).
Una cosa è la giustezza dell'idealismo critico, e altra cosa è la forza
persuasiva dei suoi argomenti. Quanto alla prima, vedremo più tardi
cosa pensarne in rapporto alla nostra trattazione; ma quanto alla seconda,
dobbiamo riconoscere fin d'ora ch'è uguale a zero. Quando si fabbrica
una casa e il peso del primo piano fa cadere il pianterreno, precipita
insieme anche il primo piano. Il realismo primitivo e l'idealismo
critico si comportano proprio come tale pianterreno e tale primo piano.

Cita:
Rob 13/10/12:
e abbiamo visto come l' "idealismo critico" abbia usato il martello (giustamente) contro il "realismo ingenuo"; e come a sua volta Steiner abbia usato lo stesso martello (giustamente!) contro l' "idealismo critico", che non è rigoroso nelle sue deduzioni (come invece lo è nei confronti del "realismo ingenuo" che ha appena demolito!)


Per chi ritiene che tutto il mondo percepito sia solo rappresentazione,
cioè solo l'effetto sulla mia anima di cose a me sconosciute, il
problema della conoscenza si concentra non nelle rappresentazioni
esistenti solo nell'anima, ma bensì nelle cose situate al di là della nostra
coscienza e indipendenti da noi. Egli domanda: « Quanto possiamo
indirettamente conoscere di queste ultime, poi che non sono direttamente
accessibili alla nostra osservazione? ». Chi si colloca da questo
punto di vista si preoccupa non del legame interno fra le sue percezioni
coscienti, ma delle loro cause, che restano fuori della sua coscienza
e hanno un'esistenza indipendente da lui, mentre - giusta il suo
modo di vedere - le percezioni scompaiono appena egli distoglie i propri
sensi dalle cose. La nostra coscienza - da questo punto di vista -
funziona proprio come uno specchio, nel quale le immagini di certi
oggetti scompaiono appena la superficie riflettente non è più diretta
verso di essi. Ma quando non si vedono le cose in sé, bensì solo le loro
immagini riflesse, bisogna dedurre indirettamente dal comportamento
di queste ultime le proprietà delle prime. Tale è la posizione presa dalla
scienza naturale moderna, la quale utilizza le percezioni solo come
ultimo mezzo, per arrivare a comprendere i processi veri della materia
che stanno dietro alle percezioni Se il filosofo come idealista critico
può ancora ammettere una esistenza, il suo sforzo conoscitivo non può
che tendere, per mezzo della utilizzazione indiretta delle rappresentazioni,
verso questa esistenza. Il suo interesse salta al di là del mondo
soggettivo delle rappresentazioni e si getta su ciò che provoca tali rappresentazioni.



Cita:
Rob 13/10/12:
l' idealista critico ha allora due strade davanti a sé; la prima di cui ci dice Steiner, è quella per cui egli cerca di conoscere "indirettamente" l' oggetto, la "cosa-in-sè"; è ciò che fa la scienza tutto sommato; NON può basarsi di certo sulle soggettive rappresentazioni (!) e ricerca quindi l' oggettivo al d là di esse! Prova a decrittare l' oggetto che si dà a noi come rappresentazione! L' oggetto che pertanto NON è soggettivo (al contrario delle nostre rappresentazioni!).
Ci si domanda (e ripeto le belle parole di Steiner al riguardo):
«Quanto possiamo
indirettamente conoscere di queste ultime, poi che non sono direttamente
accessibili alla nostra osservazione? ».
E' il percorso che sta facendo la scienza odierna! Ma è un percorso veramente che non ha una fondata sostenibilità come invece si vorrebbe che fosse; si dice di lasciar fuori i propri pensieri, le proprie rappresentazioni per dedicarsi unicamente all' oggetto oggettivo!
Ma non si è poi così rigorosi da dirsi anche che intanto ci si dice soggettivi nel percepire l' oggetto, e poi invece si oggettivizza tutto il restante percorso (evidentemente non si può fare di meglio); ma poi, quando si dice di voler "sbirciare" in quella che è l' oggettività dell' oggetto (e non nella soggettività delle rappresentazioni) COSA è veramente permesso in questo tipo di determinazione? Che mezzi abbiamo veramente per attuare ciò? Non è che per caso si dia per oggettivo ciò che è "comune" tra le persone alle rappresentazioni che si hanno, tanto per cominciare? Allora il "sole" è oggettivo NON perché possiamo sbirciare "oltre" la nostra rappresentazione, ma solo perché c'è una comune rappresentazione delle persone sul "sole"; così è per tutti!
Poi c'è un secondo livello, in cui la rappresentazione (soggettiva e pertanto ingannevole) viene in qualche modo ad essere riaggiustata (e pertanto ciò ci avvicinerebbe ancor di più all' oggettività dell' oggetto): se tutte le rappresentazioni d tutte le persone ci dicono che "il sole gira intorno alla terra" questa è l' oggettività; fino al momento però in cui si dimostra della fallacità di quel tipo d rappresentazione, ed allora ecco che la "realtà" del sole, la "realtà" del' oggetto, viene ad essere rivista; il pensiero che finalmente è la terra a girare attorno al sole, si va ad assomare alla precedente rappresentazione del sole, e quello che ne risulta ora è una rappresentazione più completa rispetto a prima; ma con ciò dire che si tratti dell' "oggetto" ce ne corre! Non si ha il coraggio di dirsi che sempre all' interno di rappresentazioni restiamo e che con questo tipo di strumento (idealismo critico scientifico) non si va troppo lontano! Si va ma non si va troppo lontano. E' la dolorosa strada della conoscenza dell' uomo dove non ci si fida veramente delle percezioni (non sono reali, l' oggetto non è quello), non ci si fida delle rappresentazioni (sono soggettive); e con questi assunti iniziali si continua a lavorare sia con le percezioni sia con le rappresentazioni. Si negano le prime, si negano le seconde, e non si capisce quindi bene la "conoscenza" dell' uomo a cosa veramente possa attingere che non sia l 'una e l' altra cosa!
Evidentemente è l' assunto dato che è sbagliato! perché l' uomo comunque "conosce" e SE conosce allora vuol dire che lo fa perché c'è una verità nella percezione reale e perché c'è una verità anche nella rappresentazione soggettiva! (quella che si vorrebbe tenere fuori dalla porta, ma che poi ritorna con l' inevitabile "pensare" dell' uomo stesso, che per lo scienziato dovrebbe essere anch' esso "soggettivo", alla strega della rappresentazione, e quindi NON indicativo per la realtà oggettuale! L' uomo dovrebbe pertanto "solo" osservare; nel suo pensare sarebbe già egli soggettivo!))


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 13/10/2012, 12:34 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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(Cap 5 - 2°parte di 10)

L'idealista critico può però arrivare anche a dire « Io rimango chiuso
nel mio mondo di rappresentazioni; e non ne posso uscire. Se penso
a una cosa dietro le mie rappresentazioni, anche questo pensiero non è
altro che una mia rappresentazione ». Un tale idealista o negherà allora
completamente la cosa in sé o per lo meno spiegherà ch'essa per noi
uomini non ha alcuna importanza, ch'è come se non ci fosse, poiché
non ne possiamo saper nulla.
A un simile idealista critico l'universo appare come un sogno, rispetto
al quale sarebbe semplicemente assurdo ogni tentativo di conoscenza.
Non possono esserci per lui che due specie di uomini: gli ingenui,
che ritengono per cose reali i fantasmi dei propri sogni, e i saggi
che vedono la nullità di questo mondo sognato e che devono quindi,
via via, perdere ogni voglia d'occuparsene e preoccuparsene. Da questo
punto di vista, anche la propria personalità diviene una mera immagine
di sogno. Come nel sonno fra le immagini del sogno appare anche l'immagine
nostra, così nella coscienza di veglia la rappresentazione del
proprio io si aggiunge alla rappresentazione del mondo esterno. Allora
non abbiamo nella coscienza il nostro vero io, ma solo la nostra rappresentazione
dell'io. Chi nega che ci siano delle cose, o - per lo meno
- che si possano conoscere, deve negare l'esistenza o - per lo meno - la
conoscenza anche della propria personalità. L'idealista critico giunge
allora all'asserzione che: « Tutta la realtà si riduce a un meraviglioso
sogno, senza una vita di cui si sogni, e senza uno spirito che sogni: a
un sogno che in sogno dipende da se stesso » (cfr. Fichte, La destinazione
umana).


Cita:
Rob 13/10/12:
e questa è la seconda strada che può percorrere l' idealista critico; a dire il vero è anche l' unica strada che potrebbe percorrere, se egli fosse fino in fondo coerente con le sue premesse!
Qua ancora questo tipo di idealismo viene come sbertucciato (qua nella persona di Fichte);
ricordo che tale tipo di atteggiamento verso questo tipo di idealismo Steiner l' ha rivolto anche
nel suo libro "Nietzsche – un lottatore contro il suo tempo"




Per chi ritiene questa vita un sogno, sia che non supponga niente
altro dietro a questo sogno, sia che riferisca le sue rappresentazioni a
cose reali, la vita stessa deve perdere ogni interesse scientifico.
Mentre, però, per colui che crede esaurito col sogno quanto è a noi accessibile,
tutta la scienza è una chimera. Per chi si crede autorizzato di giudicare
le cose dalle rappresentazioni, la scienza consiste proprio nella
ricerca di queste cose in sé. La prima concezione può essere indicata
col nome di illusionismo assoluto, la seconda è chiamata, dal suo più
logico sostenitore - Edoardo von Hartmann - , realismo trascendente
(1).
Entrambe queste concezioni hanno questo in comune col realismo
primitivo, che cercano di prender piede nel mondo attraverso l'analisi
delle percezioni. Ma in questo campo non possono trovare da nessuna
parte un punto d'appoggio.
_____
(1) Trascendente nel senso di questa concezione del mondo, si chiama una conoscenza,
che crede di sapere che sulle cose in sé non si può dir nulla direttamente,
ma che dal soggettivo noto tira delle conseguenze sull'ignoto che sta al di là del soggettivo
(trascendente). La cosa in sé, secondo questo punto di vista, sta al di là del
mondo direttamente conoscibile, cioè è trascendente. Ma il nostro mondo si può
riferire trascendentalmente al trascendente. La concezione di Hartmann si chiama
realismo, perché, partendo dal soggettivo, ideale, va al trascendente, reale
Una delle questioni principali per il realista trascendente dovrebbe
essere questa: « Come fa l'io a creare per forza propria il mondo delle
rappresentazioni? ». A un mondo di rappresentazioni che scompare
appena chiudiamo i nostri sensi al mondo esterno, un tentativo serio di
conoscenza non si può interessare se non in quanto il mondo delle rappresentazioni
è un mezzo per arrivare indirettamente al mondo dell'io
in sé.


Cita:
Rob 13/10/12:
dunque ora di queste due correnti, quella più scientifica, che almeno ci prova a ricercare l' "oggetto" oggettivo (al di là della rappresentazione soggettiva) Steiner la chiama "realismo trascendente" ed è quella che fa(ceva) capo a von Hartmann; mentre quella che a questo punto neppure più è interessata alla ricerca sull' oggetto, sulla "cosa-in-sè", Steiner ci dice che si tratta di "illusionismo assoluto" (e qua pare quindi collocare lo stesso Fichte a questo punto!!).
Nel primo caso si parla di "trascendente" perché da quello che è solo possibile esperire (le nostre rappresentazioni) SE vogliamo provare a conoscere l' oggettività che è insita nell' oggetto, dobbiamo saltare il fossato quantico per giungere dall' altro lato, quello dove c'è l' oggetto e l' oggettività; il salto quantico ancora una volta è TRA la realtà spirituale - la nostra rappresentazione - e la realtà materiale - l' oggetto; pertanto questo fossato viene saltato passando da un "stato" all' altro; e in che modo? in modo "trascendentale"! Una realtà va "trascesa" per forza; c'è chi trascende per passare dalla realtà materiale a quella spirituale, e chi come von Hartmann trascende per passare da una realtà spirituale (la propria rappresentazione) ad una materiale (l' oggetto oggettivo, la "cosa-in-sè").
Ma che dire al riguardo? Che tipo di oggettività "veramente" è possibile cogliere? Volendo interrogarsi fino in fondo, tale possiblità naufragherebbe e pertanto non potremmo veramente MAI "conoscere"; a meno che... non ci stiamo dando delle scorrette deduzioni! E ciò che pensavamo essere "soggettivo" (il pensare dell' uomo) in realtà non sia invece "oggettivo"; e pertanto ciò che pensavamo non si potesse conoscere, in realtà così è possibile conoscere! perché, altrimenti, con le premesse date (l' uomo è solo soggettivo nelle sue rappresnetazoni e nel suo pensare) COME CASPITA MAI POTREMMO VERAMENTE CONOSCERE? RAPPORTARCI agli oggetti là fuori? Evidentemente crediamo che tutto in noi sia solo soggettivo (!!), ma al contempo poi raccogliamo i frutti del conoscere, come se questi ci potessero VERAMENTE giungere per una strada che fosse soltanto veramente soggettiva!


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 13/10/2012, 22:03 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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(Cap 5 - 3° parte di 10)

Se le cose della nostra esperienza fossero rappresentazioni, la nostra vita quotidiana assomiglierebbe ad un sogno e la conoscenza del reale stato di fatto al risveglio. Anche le nostre immagini di sogno ci interessano solo fintanto che sogniamo e, di conseguenza, non scorgiamo la loro natura di sogno. Al momento del risveglio non ci interessiamo più al nesso interno fra le immagini del sogno, ma ai processi fisici, fisiologici e psicologici che ne formano la base. Altrettanto poco il filosofo, che giudica il mondo come una sua rappresentazione, può interessarsi al nesso interno fra i singoli particolari del mondo. Nel caso ch'egli ammetta ancora l'esistenza d'un io, non si domanderà come una propria rappresentazione si connetta con un'altra, ma che cosa avvenga nell'anima, da lui indipendente, mentre la sua coscienza contiene una determinata serie di rappresentazioni. Quando io sogno di bere del vino che mi produce bruciore in gola e poi mi sveglio con stimolo a tossire (cfr. Weygandt, Origine dei sogni, 1893), al momento del risveglio l'azione del sogno cessa d'avere interesse per me. La mia attenzione resta rivolta solo ai processi fisiologici e psicologici, per mezzo dei quali lo stimolo a tossire si esprime simbolicamente nel sogno. In modo analogo, il filosofo che è persuaso della natura rappresentativa del mondo, deve saltare subito da questo all'anima reale che vi si nasconde dietro. Peggio si sta nel caso che l'illusionismo neghi completamente l'io in sé dietro le rappresentazioni, o lo ritenga - per lo meno - inconoscibile. A una simile idea si è facilmente condotti dalla considerazione che se di fronte al sogno c'è lo stato di veglia nel quale abbiamo occasione di accorgerci dei sogni e di riferirli a rapporti reali, non c'è nessuno stato che stia in analogo rapporto colla vita cosciente di veglia. Ma chi fa questa considerazione, non vede che di fatto vi è qualcosa che si comporta rispetto al puro percepire come l'apprendere allo stato di veglia si comporta rispetto al sognare: questo qualcosa è il pensare.

Cita:
Rob 13/10/12:
Steiner con questa metafora del sogno e del risveglio, ripete ancora una volta le due situazioni: del realista trascendentale, il quale non è interessato ai nessi che si hanno nel sogno (le proprie rappresentazioni) bensì a cosa succede nello stato di veglia che per qualche motivo abbia un riferimento con i sogni avuti: e fa l' esempio che lo stimolo al tossire dello stato di veglia (realtà – oggetto) si collega al sogno in cui si beve vino e che produce bruciore in gola! (rappresentazione – soggettivo). A tale filosofo interessa solo uscire dal sogno per trovare l' addentellato che questo ha con la realtà! A lui interessa l' oggetto, la realtà, il risveglio, con il suo stimolo a tossire! Quindi si "trascende" alla realtà, allo stato di veglia, partendo dallo stato di sogno in cui viviamo! Dato dall' essere unicamente coscienti delle nostre soggettive rapresentazioni.

Invece nel caso dell' "illusionismo"; qua addirittura non ci si sforza neppure di creare un parallelo tra il sogno e la veglia; qua ci si limita unicamente al sogno!


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 14/10/2012, 8:07 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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(Cap 5 - 4° parte di 10)

All'uomo ingenuo non si può fare lo stesso rimprovero: egli si abbandona alla vita e ritiene che le cose esistano realmente così come si presentano alla sua esperienza, Il primo passo però a intraprendersi per superare questo punto di vista, può solo consistere nella domanda: « Come si comporta il pensare rispetto alla percezione? ». È indifferente che, dopo la mia rappresentazione, la percezione continui a sussistere oppure no, nella forma a me data: se voglio asserire qualche cosa a suo riguardo non lo posso fare che con l'aiuto del pensare. Quando dico: « Il mondo è una mia rappresentazione », esprimo il risultato di un processo di pensiero, e se il mio pensare non è applicabile al mondo questo risultato è errato. Fra la percezione, e qualsiasi asserzione riguardo alla medesima, si frappone il pensare. La ragione per cui il pensare viene di solito trascurato nella considerazione delle cose, l'abbiamo esposta precedentemente. Sta nella circostanza che noi dirigiamo la nostra attenzione soltanto sull'oggetto intorno al quale pensiamo e non contemporaneamente anche sul nostro pensare. La coscienza primitiva tratta perciò il pensare come un quid che non ha nulla a che fare colle cose, ma ne rimane intieramente in disparte e in disparte fa’ le sue considerazioni sul mondo. L'immagine che il pensatore si forma dei fenomeni del mondo, non si considera come un quid che appartiene alle cose, ma come un quid che esiste solo nella testa dell'uomo; il mondo pare completo anche senza questa immagine; il mondo è lì bell'e fatto, con tutte le sue sostanze ed energie; di questo mondo completo in sé l'uomo si fa un'immagine. Ma a chi pensa così, bisogna domandare: « Con che diritto considerate voi il mondo come completo, senza il pensare? Non produce forse il mondo, colla stessa necessità, il pensare nella testa dell'uomo e i fiori sulla pianta? Piantate un seme nel terreno: getterà una radice e un fusto: svilupperà foglie e fiori. Ponete la pianta di fronte a voi stessi: essa si unisce nella vostra anima con un determinato concetto. Perché questo concetto apparterrebbe all'intera pianta meno delle foglie e dei fiori? Voi dite che le foglie e i fiori esistono senza un soggetto percepente, mentre il concetto appare solo quando l'uomo si contrappone alla pianta. Verissimo. Ma anche le foglie e i fiori si formano sulla pianta solo quando vi sia della terra in cui collocare il seme, e vi siano luce ed aria in cui foglie e fiori possano svilupparsi. Proprio cosi si forma il concetto della pianta, quando una coscienza pensante s'accosta alla pianta ». È affatto arbitrario considerare come una totalità, come un intero, la somma di tutto ciò che di una cosa apprendiamo dalla semplice percezione, e di considerare ciò che risulta dall'attività del pensare come qualcosa di aggiunto, che non abbia nulla a che fare colla cosa stessa.

Cita:
Rob 13/10/12: Steiner ora ritorna al pensare come ciò che completa la percezione! Usa esempi molto belli, e se ne siamo convinti, allora dobbiamo veramente dirci che il pensare "non" è una semplice attività soggettiva dell' uomo; ma è una attività propria dell' uomo (e pertanto riferita al soggetto) ed è oggettiva in quanto coglie, completa l' oggetto percepito.
Se il pensare fosse solo soggettivo nell' uomo, ci si dovrebe chiedere in che maniera esso potrebbe "collegarsi" così mirabilmente al mondo esterno, agli oggetti.
Un conto è il "soggetto" pensante che pensa oggettivamente (questo afferma Steiner);
un conto è il "soggetto" pensante che pensa soggettivamente (questo si pensa normalmente a causa di quel "soggetto")!
(poi il "pensante" oggettivo vede se stesso come "soggetto").
Non a caso questo capitolo si intitola "La conoscenza del mondo"; perché il pensare permette questo in quanto esso è collegato al mondo! nondimeno che a noi che, addirittura, siamo i produttori del pensare stesso!

Ora mentre seguo e cerco di capire Steiner, mi si pone la seguente riflessione; è vero che il pensare è oggettivo nell' uomo; perché se così non fosse saremmo costretti alla completa in-conoscenza del mondo! Se conosciamo è proprio perché i concetti che abbiamo sugli oggetti, in qualche modo appartengono agli stessi oggetti! Un pensare oggettivo risolve anche il problema della dualità tra spirito e materia, tra "io" e mondo (è un differente rispecchiamento nel campo di coscienza); ci risolve anche il problema di dover giungere in modo trascendente alla realtà (partendo dalle nostre soggettive rappresentazioni).
Ma questo pensare oggettivo in qualche modo si "mescola" a quanto invece c'è di soggettivo del soggetto pensante! Non c'è dualità tra spirito e materia, ma sembra vi sia una sorta di dualità tra "pensare" oggettivo e "pensare" invece soggettivo. Tra ciò che quindi ci "collega" con il mondo, e ciò che invece ancor di più ci separa da esso! L' uomo quindi vive questa situazione in cui questi due aspetti sono mescolati tra di loro; dove non è facile discriminare; dove non credo neppure che sia permesso l' esautorarsi completamente dall' aspetto soggettivo (di necessità) per accedere "unicamente" all' aspetto "oggettivo". Tra l' altro questo aspetto di pensare "oggettivo" lo mettiamo in pratica in modo inconscio quando percepiamo (ricordiamoci che senza il concomitante pensare nel campo di coscienza, la percezione sarebbe tutt' altra cosa: un coacervo di sensazioni slegate l' una dall' altra), lo mettiamo in atto quando ci formiamo dei concetti ma molto spesso poi quegli stessi concetti diventano immagini, rappresentazioni, che assurgono in noi in modo quasi incosciente.
E lo stesso pensiero necessitato, figlio anch' esso del pensare (e di chi se no?), spesso si mostra in modo inconscio; altre volte in modo cosciente. Insomma, il "pensare" è attività oggettiva, che ci permette di conoscere addirittura il mondo! (va oltre quindi la soggettività dell' uomo) però poi non sappiamo dei pensieri che esso produce quali possano avere la caratteristica di oggettività e quali invece di soggettività!
E ciò è una fonte infinita di fraintendimenti! "conosco" la mela che ho di fronte (grazie appunto al pensare), ma presumo allo stesso modo di conoscere "altro" che invece deriva da un tipo di pensiero che è solo e soltanto soggettivo!
Basta dire che lo stesso "pensare" ci fa conoscere la "corda" davanti a noi; ma poi lo stesso "pensare" produce il pensiero che quella corda si tratti di un "serpente"! Come facciamo noi a sapere che mentre ci sembra di vedere un "serpente" sappiamo che invece si tratta di una "corda"? Insomma, se a me pare un serpente, nulla so' circa l' oggettività o la soggettività del mio pensiero! Se lo sapessi, farei presto a dirmi che non si tratta di un serpente ma di una corda! Quindi, c'è un mescolamento tra pensiero soggettivo ed oggettivo ed inoltre è facile che manchi una bussola che mi sappia con certezza dire di che si tratti tra i due!
Ecco allora che grazie al "pensare" noi contemporaneamente possiamo conoscere, ma poi prendere anche le tranvate più grosse! Ecco perché allora spesso si dice che la scienza deve "solo" osservare! perché sà che cè un pensiero che è anche soggettivo, che prende le tranvate! Poi però NON ammette a se stesso che ogni scoperta è frutto in modo indissolubile dello stesso pensare! Hai voglia ad osservare e basta! "Quel" pensare però è "oggettivo", ossia HA COLTO la realtà.
Il problema è quindi distinguere tra questi due pensieri: quello che coglie la realtà e quello che invece coglie solo la nostra soggettività! Qua si propone una ricetta facile: essere coscienti del proprio pensare; sapere da dove viene, ossia non fare sì che esso venga da altrove, ma che lo produco "io"; quindi un pensare cosciente e che viene da "io". Ma questo è sufficiente a garantirci che tale pensiero sia così "oggettivo"? Avrei dovuto almeno dire che il pensare dovebbe essere sì cosciente, ma prodotto da "IO" e non da "io": ma ciascuno di noi anche quando si pone nella situazione di creare il proprio pensare, come fa a dirsi se all' opera è "io" o "IO" ? Facili le etichette ed i diagrammi che invocano che a pensare debba essere "IO" e non il corpo astrale, eterico, il soma con gli istinti (ossia, l' "io")! Forse le cose non stanno in quelle caselle così schematiche che ci sono state presentate?


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 14/10/2012, 8:11 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
Messaggi: 99
(Cap 5 - 5° parte di 10)


Se oggi ricevo un bocciolo di rosa, l'immagine che se ne presenta alla mia percezione è da principio (ma solo da principio) isolata. Se metto il bocciolo nell'acqua, avrò domani una tutt'altra immagine del mio oggetto. Se non distacco gli occhi dal bottone di rosa, vedrò lo stato odierno trasformarsi in quello di domani in modo continuo attraverso innumerevoli passaggi intermedi. L'immagine che mi si offre in un determinato momento, è solo un ritaglio casuale dell'oggetto concepito in un continuo divenire. Se non mettessi il bocciolo nell'acqua, non si svilupperebbero tutta una serie di stati che in potenza erano in esso: parimenti potrei domani essere impedito di continuare a osservare il fiore, e potrei averne quindi un'immagine incompleta. Ma darei importanza a semplici casualità, e non comprenderei la realtà, se dicessi dell'immagine staccata che mi si offre in un dato istante : « Questa è la cosa ».


Cita:
Rob 13/10/12: ecco perché la sola percezione nn può essere la totalità dell' oggetto! La percezione è un fotogramma dell' oggetto! Il pensare può invece darci la totalità di esso; specie se si tratta del mondo vegetale ed animale; l' oggetto così si metamorfosa da seme a piantina che poi mette foglie e poi frutti e poi questi liberano a loro volta il seme; da piccolo leoncino a leone ben formato ecc... Ma ancora non è tutto il solo assemblare questi fotogrammi; c'è ancora dell' altro: l' esempio successivo della pietra che compie una parabola per cadere a terra; la "parabola" è sempre parte dell' oggetto! Ma non visible; "solo" con il pensare, solo con il concetto, possiamo completare ciò che la pietra compie nel suo fenomeno; la forma della parabola appartiene a "tutto" il fenomeno!



Ugualmente, non siamo autorizzati a prendere la somma dei vari elementi percepiti per la cosa in sé. Potrebbe benissimo darsi che uno spirito fosse in grado di ricevere il concetto, contemporaneamente e unitamente alla percezione. A un simile spirito non potrebbe neppure venire in mente di considerare il concetto come non appartenente alla cosa. Dovrebbe ascrivergli una esistenza connessa inseparabilmente colla cosa. Ricorrerò ad un esempio per essere più chiaro. Quando getto nell'aria una pietra in direzione orizzontale, io la vedo successivamente passare per punti diversi. Collego questi punti con una linea. In matematica ho imparato a conoscere varie forme di linee, fra cui la parabola : e so secondo quali leggi un punto si deve muovere perché la linea che risulta sia una parabola. Quando studio le condizioni in cui si muove la pietra che ho gettata, trovo che la linea del suo moto è identica con quella che conosco sotto il nome di parabola. Che la pietra percorra una parabola, è conseguenza delle condizioni date, e segue da esse di necessità. La forma della parabola appartiene a tutto il fenomeno, come ogni altra cosa che in esso è da considerarsi. Per lo spirito di cui abbiamo sopra parlato, che non abbia bisogno di prendere la via del pensare, non sarebbe soltanto data una somma di sensazioni visive (della pietra nei suoi diversi punti di passaggio), ma unitamente ad essa sarebbe data anche la forma parabolica della traiettoria, che noi aggiungiamo a ciò che appare soltanto più tardi per mezzo del pensare. Non dipende dagli oggetti, ch'essi ci siano dati da principio senza i corrispondenti concetti, ma dalla nostra organizzazione spirituale. La nostra entità totale funziona in modo che - per ogni oggetto della realtà - i relativi elementi affluiscono a lei da due sorgenti: dalla parte della percezione e da quella del pensare. Non ha nulla a che fare con la natura delle cose, il modo in cui io sono organizzato per afferrarle. La separazione fra percepire e pensare avviene solo nel momento in cui io, come osservatore, mi metto di fronte alle cose. Ma quali elementi appartengano alle cose e quali no, non può dipendere dal modo in cui io pervengo alla conoscenza di questi elementi.

Cita:
Rob 13/10/12: la "parabola" appartiene alla pietra così come ciò che di essa mi si presenta all' osservazione! Il "formare" la parabola non è dato dallo stesso lato - della percezione – ma dal lato del pensare; non viene dato come qualcosa che compare davanti a me, ma deve essere prodotto. Purtuttavia, sia che qualcosa m venga dato o che me lo debba conquistare, sia che arrivi per la via della percezione che per la via concettuale, tuttavia tutto ciò FA PARTE dell' oggetto stesso! APPARTENGONO alla cosa stessa.



L'uomo è un essere limitato. Anzi tutto è un essere fra altri esseri. La sua esistenza appartiene allo spazio e al tempo, e quindi non può essergli data via via che una porzione ristretta dell'intero universo. Questa porzione ristretta confina però tutt'all'intorno, sia nel tempo sia nello spazio, con altro. Se la nostra esistenza fosse così collegata colle cose, che ogni divenire del mondo fosse allo stesso tempo anche nostro divenire, non vi sarebbe distinzione fra noi e le cose. Ma allora non ci sarebbero neppure cose singole, per noi. Ogni divenire passerebbe continuamente d'uno in altro. Il cosmo sarebbe un'unità e una interezza chiusa in sé. La corrente del divenire non avrebbe mai interruzioni, A causa della nostra limitazione, ci appare come singolarità ciò che in verità non è singolarità. Mai, per es., la qualità singola del rosso esiste isolatamente per sé. È da ogni parte circondata da altre qualità, a cui appartiene, e senza le quali non potrebbe sussistere. Ma per noi è una necessità, di separare certi frammenti del mondo e di considerarli a se. Da un insieme complesso di colori il nostro occhio può solo afferrare singoli colori l'un dopo l'altro, da un sistema di concetti collegati fra loro il nostro intelletto può solo afferrare singoli concetti. Questa separazione è un atto soggettivo, derivante dalla circostanza che noi non siamo identici col processo del mondo, ma un essere fra altri esseri.

Cita:
Rob 13/10/12: "noi non siamo identici col processo del mondo" (quindi indifferenziati), ma un essere fra altri esseri"; la nostra percezione individuale, che ci separa da tutti gli altri esseri e da tutte le altre cose, è dovuto al fatto che siamo esseri "limitati"! Siamo un essere fra altri esseri ed occupiamo solo una parte di spazio e tempo. Come potremmo quindi esperire questo senso di "limitatezza" inteso come separatezza dal resto, se avessimo in noi tutti i concetti nella loro assoluta completezza relazionale? Se non percepissimo il rosso, ma un passare incessante ed ininterrotto di qualità che mai sono tra diloro separate. Devo quindi "separare" un colore dal resto (non è così, ma così a me deve sembrare "se" deve esistere la mia "separatezza" la mia "limitatezza"), devo scindere una forma dalle altre (non è così, ma questo a me deve succedere!), devo scindere addirittura la rete concettuale globale per estrapolare il singolo concetto, o la rete concettuale che però appartiene a quel dato oggetto. Se fossimo "solo" un divenire del mondo, alla stregua del restante mondo, allora non ci sarebbe per noi l' esperienza della "separatezza" e della "limitatezza". Dov'è infatti il "rosso"? E dov'è veramente il "leone"? Vi sarebbe solo un indifferenziato tutto oppure un continuo ed incessante collegamento a formare il solo Tutto. Non vi sarebbe alcun tipo di separazione, di discriminazione. L' uomo è limitato, e proprio perché è limitato NON può accedere contemporaneamente al Tutto. Può accedere alle sue singole percezioni: questo è rosso, questo è il leone; e può accedere ai suoi concetti che si riferiscono a quelle singole percezioni.


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 14/10/2012, 8:33 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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(Cap 5 - 6° parte di 10)

Quel che ora veramente importa è di determinare la posizione di
quell'essere che siamo noi, rispetto agli altri esseri. Questa determinazione
deve essere distinta dal semplice divenir coscienti del nostro sé,
che, al pari del divenir coscienti di ogni altro oggetto, riposa sulla percezione.
La percezione di me stesso mi mostra una somma di proprietà
ch'io riunisco nel tutto della mia personalità, come riunisco le proprietà.
« giallo, metallo splendente, durezza, ecc. » nell'unità « oro ». La
percezione di me stesso non mi porta fuori del campo di ciò che mi
appartiene. Questa percezione di me stesso deve quindi esser tenuta
distinta dalla determinazione di me stesso fatta dal pensare. Ché, come,
per mezzo del pensare, io inserisco una singola percezione del mondo
esterno nella compagine del mondo, cosi per mezzo del pensare inserisco
anche la mia percezione riguardante me stesso entro il processo
mondiale. La mia percezione di me stesso mi chiude dentro determinati
confini: il mio pensare non ha invece a che fare con tali confini. In
questo senso io sono un essere doppio: sono chiuso in un campo, che
percepisco come quello della mia personalità; ma sono anche veicolo
di un'attività che determina da una sfera più alta la mia esistenza limitata.
Il nostro pensare non è individuale come la sensazione e il sentimento.
È universale.

Cita:
Rob 13/10/12:
La percezione che ho del mondo "separa" l' oggetto percepito dal tutto; e così la percezione che ho di me stesso, pure mi separa dal Tutto. Come si hanno tutte le caratteristiche riunite nella percezione "oro", così riunisco tutti i tratti della mia personalità entro il confine percettivo di me stesso.
Ma con il pensare io posso collegare la percezione, l' oggetto, al resto del mondo; e allo stesso modo il pensare permette di inserire anche la percezione di me stesso nel mondo.
L' oggetto percepito infatti ha un suo posto nel contesto del mondo; non si esaurisce esso nella sua singolarità, ma troverà un suo posto accanto al restante mondo; così l'uomo si sente "isolato" nella sua percezione di sé, ma trova anch' esso il suo posto ne mondo grazie al pensare che allarga l' orizzonte oltre l' oggetto percepito da un lato e oltre la percezione del proprio sé dall' altro.


Acquista un'impronta individuale nei singoli uomini,
solo perché è in rapporto colle loro sensazioni e coi loro sentimenti
individuali.

Cita:
Rob 13/10/12:
allora il pensare è "universale", però poi acquista una impronta individuale perché si mescola con ciò che nell' uomo è di necessità, è di natura (le sensazioni, i sentimenti); se questi non vi fossero, vi sarebbe solo una "universalità" (l' uomo perderebbe il proprio posto nel mondo); sarebbe finalmente un "CHI" a spese però della propria individualità. E' veramente possibile questo?
Insomma, nel caffèlatte è ancora possibile "scindere" il caffè dal latte? E poi anche se fosse possible ciò, che ne sarebbe dell' individualità "caffèlatte"?


Gli uomini si distinguono fra loro da queste particolari
colorazioni del pensare universale. Un triangolo ha un unico concetto
: e per il contenuto di questo concetto, è indifferente di esser
compreso dalla coscienza umana A oppure da quella B. Ma da ciascuna
delle due coscienze è compreso in modo individuale.
Contro quest'idea, sta un pregiudizio umano difficile a vincere. In
generale non si arriva a riconoscere, che il concetto del triangolo, quale
la mia testa l'afferra, è lo stesso di quello afferrato dalla testa del mio
prossimo. L'uomo semplice si ritiene creatore dei suoi concetti: crede
quindi che ogni persona abbia concetti suoi proprî. È uno dei compiti
fondamentali del pensare filosofico di vincere questo pregiudizio. Il
concetto unitario del triangolo non diviene una pluralità perché è pensato
da molti. Perché il pensare dei molti è esso stesso un'unità.

Cita:
Rob 13/10/12:
allora facciamo questo sforzo e comprendiamo alfine che nei concetti si ha una oggettività; che è quella che ci permette poi di conoscere, tra l' altro. Ma, ora, possiamo però anche dire che assieme a questo pensare così oggettivo, esiste pure quel tipo di soggettività, di individualità, che dà le diverse "colorazioni" del pensare appunto?
Ossia possiamo dire che nel caffèlatte ci deve essere assolutamente anche del caffè! Ma poi però possiamo anche dire che ci deve essere al contempo anche il latte, e non può essere nè tutto solo caffè e nè tutto solo latte?
Ovviamente l' esempio vale anche... per il cappuccino (ah, ah; ogni tanto, per non sfigurare di fronte a GGGGGGG)


Nel pensare ci è dato l'elemento che riunisce la nostra particolare
individualità col cosmo, a formare un tutto. In quanto abbiamo sensazioni
e sentimenti (e anche percepiamo), siamo singoli, in quanto pensiamo,
siamo l'essere uno e universale che tutto pervade. Questa è la
profonda ragione della nostra doppia natura: noi vediamo che viene in
noi ad esistere una forza assoluta, una forza universale; ma non impariamo
a conoscerla al suo irradiare dal centro del mondo, bensì in un
punto della periferia. Nel primo caso, al momento stesso in cui arrivassimo
alla coscienza, ci sarebbe rivelato tutto il mistero del mondo. Ma
poiché stiamo in un punto della periferia e troviamo la nostra propria
esistenza racchiusa entro determinati confini, dobbiamo imparare a
conoscere quanto giace al di fuori del nostro proprio essere, coll'aiuto
del pensare che affiora in noi dalla generale esistenza del mondo.
Per il fatto che il pensare va in noi al di là della nostra esistenza
particolare e si riconnette con l'esistenza generale del mondo, sorge in
noi il desiderio della conoscenza. Esseri senza pensiero non hanno
questo desiderio. Quando altre cose si pongono loro di fronte, non sorgono
in essi domande. Queste altre cose rimangono esterne, per esseri
simili. Invece presso gli esseri pensanti, di fronte alla cosa esterna sor
ge il concetto. Esso è ciò che della cosa riceviamo non dal di fuori, ma
dal di dentro. La compensazione, la riunione dei due elementi - interno
ed esterno - deve dare la conoscenza.
La percezione dunque non è nulla di completo, di finito in sé, ma è
uno dei lati della realtà totale. L'altro è il concetto. L'atto conoscitivo
è la sintesi della percezione e del concetto. Percezione e concetto di
una cosa formano la cosa completa.
Le considerazioni precedenti mostrano che è assurdo ricercare negli
esseri singoli del mondo qualcos'altro di comune, al di fuori del
contenuto ideale che il pensare ci fornisce. Tutti i tentativi tendenti ad
un'altra unità universale che non sia questo contenuto ideale, ottenuto
per mezzo del pensare applicato alle nostre percezioni, devono fallire.
Né un Dio umanamente personale, né energia o materia, né la volontà,
senza idee, di Schopenhauer, possono far da unità universale. Tutte
queste entità appartengono solo ad una zona limitata della nostra osservazione.

Cita:
Rob 13/10/12:
Ogni percezione risulta essere condizionata dal posto nel mondo e dall' organizzazione corporea e spiritale dell' uomo che percepisce. E' chiaro quindi che non ci possa essere universalità nelle percezioni; ciascuno avrà le proprie; come io percepisco il sole sarà solo mio! perché posso avere una particolare organizzazione ma soprattutto, quel metro quadro dove mi trovo e da dove percepisco il sole, darà una percezione forse solamente leggerissimamente diversa da quella di un altro; ma diversa!
Ma il concetto "sfera" del sole è lo stesso concetto per ciascun percepiente! E' in questo senso che quindi possiamo trovare nel pensare (e solo nel pensare) quel tipo di universalità che altrimenti manca! Io mi connetto quindi al "tutto" non tanto nella mia personale esperienza percettiva, bensì' nella condivisione dei concetti. Se pertanto non produco, non esprimo concetti, sono limitato alla mia soggettiva "percezione". Col concetto mi libro in aria, prescindendo totalmente dal posto del mondo dove mi trovo, e mi trovo accomunato a tutti gli altri esseri che come me, e pertanto "universalmente", accedono allo stesso mondo concettuale.

Ora una mia considerazione: "peccato" che però ora Steiner si ricordi solo del carattere "soggettivo" della percezione, e dimentichi che nella stessa percezione deve esistere un pensare seppure inconscio che ci rende possibile "quella" percezione. Se ricordo bene, diceva che proprio per i caratteri che sottendono alla "soggettività" del percepiente, si corre il rischio di credere che la stessa percezione sia solo un atto dove il pensare non agisca (e quindi NON oggettiva)! Abbiamo visto invece come sia il pensare a collegare l' una con l' altra tutte le stazioni che vanno dall' oggetto all' anima, permettendo pertanto che vi sia una unitarietà tra ciò che parte e ciò che giunge a coscienza! Il pensare cioè da un lato "coglie" l' oggetto che percepisco e dall' altro me lo "pone" nello specchio di coscienza (oltre ad accompagnarlo lungo il tragitto passando per ogn stazione) ! Può farlo perché il pensare si connette all' oggetto stesso! Completa l' oggetto stesso.
Come si può dire quindi che se non si fa partire subito la attività concettuale (Archiati direbbe questo lavorio, "rovellio" del pensare) noi non possiamo essere collegati in quanto solo percezione?
A me personalmente è sembrato di essere più inserito nel tutto quando ho avuto momenti di stupore, di bellezza nei confronti ad esempio della natura, che mi facevano cessare quel lavorio mentale e anche concettuale. CHI se ne frega se quella frasca ondeggia, e pertanto potrebbe essere una pernice piuttosto che un colpo di vento? Io posso semplicemente guardarla ondeggiare ed essere pervaso piuttosto da uno stato di "silenzio", di epochè (in fenomenologia). CHI dice che per essere collegato a quei rami che si muovono io debba per forza far partire il lavorio concettuale che si chiede "se quello è l' effetto, cosa sarà ad esserne causa?". Il silenzio che per un attimo mi toglie dai miei pensieri e mi rende quella percezione silente, come si può dire che appartenga "solo" a me e che quindi NON mi collega per nulla a quel tipo di esperienza che osservo?

Si dice che il primo Steiner era innamorato della LIBERTA', e quindi del pensare universale che è il luogo di questa libertà. Poi invece il secondo Steiner conosce invece l' AMORE; e quindi di questa "libertà" ormai non sappiamo più veramente che farcene! L' amore infatti che c' entra con la verità?
L' amore anzi accetta anche la non-verità, si fa schiavo anche della non-verità.
L' amore per una persona può anche farci dire una bugia; raccontare la "verità" ad un nazista che in base ad essa può ammazzare altre persone potrebbe portare, quindi per "amore", a raccontare una non-verità. L' AMORE si fa schiavo poi ed accetta pertanto anche la non-libertà.
Qualcuno dovrebbe quindi spiegare bene cosa si intenda questo PENSARE COL CUORE; perché i concetti sono del pensare mentale! In essi saremo anche liberi, anche universali; ma poi che ce ne facciamo di questa "libertà", di questa "unversalità" quando abbiamo perso quegli schiavi di natura che sono in noi e che sono "noi"? "Pensare col cuore" vuol dire pensare libero? Il cuore non ha che fare con l' uomo nella sua Individualità, e pertanto anche nella sua necessità?
Per AMORE quindi dell' individualità uomo, non penso il vero ed il libero nella mente (concettuale), ma penso col cuore e quindi mi incateno all' uomo che è pure natura e pure necessità.
Il primo Steiner ovviamente voleva solo dimostrare che l' uomo può disincarnarsi per trovare il solo pensare oggettivo; ho già esposto tutte le mie riserve al riguardo e non le ripeterò ora.
Invece il secondo Steiner non sa veramente che farsene di questa "libertà" così "universale" e pertanto così poco "umana"; questo glielo devo riconoscere. (Ma c'è il rischio che abbia capito male io!).
Però il sottofondo resta comunque il medesimo; non è per amore dell' umano in quanto anche necessità, sentimento, istinto ecc...; ora la libertà concettuale, mentale, viene sostituita da una ulteriore "conoscenza" che è quella dei mondi spirituali; ora invece di trovare i "concetti" trans-personali, si devono ricercare le percezioni interiori, quelle che scaturiscono non come "date", ma come ricercate. Essendo percezioni non sono prodotte dall' uomo stesso (come il pensare), ma neppure si affacciano da sole al campo di coscienza, ma vanno in qualche modo fatte partorire. Una volta così partorite queste percezioni (che sono oggetti, ma non "dati" semplicemente ma appunto fatte partorire) si collega ad esse il pensare; di nuovo si ha la tenaglia percezione&concetto; ma ora abbiamo perso ogni oggetto del mondo esterno; quello per il quale era possibile avere conoscenza. Ora la "vera" conoscenza non può prescindere da questo tipo di esperienza! (vedi aggiunta al cap 7).
Quindi c'è un passaggio da uno Steiner innamorato dei concetti e geniale nelle sue scoperte e nelle sue riflessioni! che però ha il limite, secondo me, di cogliere solo un aspetto nell' uomo (quello del suo pensare oggettivo, che sinceramente anche c'è) ad un secondo Steiner dove compare l' aspetto esoterico e dove si va alla scoperta non tanto più del mondo (conoscere il mondo), ma va alla scoperta degli esseri spirituali.
Ricordate il titolo del capitolo?
"La conoscenza del mondo"; ora 20 anni dopo quel tipo di conoscenza (anche sensoriale) è superata! ANZI; neppure più si tratta di "vera" conoscenza SE non si associa quell' ulteriore tipo di conoscenza, la quale però è strettamente "esoterica"!
E allora? Addio a FdL (!!!?????). Niente è cambiato.. tutto è cambiato!
Fino al confine ti seguivo Steiner; oltre quel confine non mi è concesso andarvi. FdL "era" un libro scritto PER TUTTI, senza particolari esperienze in campo esoterico. Ora non è più sufficiente ciò.


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 14/10/2012, 9:01 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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(Cap 5 - 7° parte di 10)

La personalità umana limitata la percepiamo soltanto in
noi, energia e materia solo nelle cose esterne. Quanto alla volontà, essa
non può prendersi che per l'estrinsecazione dell'attività della nostra
limitata personalità. Schopenhauer vuole evitare di porre il pensiero «
astratto » come veicolo dell'unità universale, e cerca in sua vece qualcosa
che gli si presenti direttamente con carattere di realtà. Questo filosofo
crede che noi non arriviamo mai e poi mai ad afferrare il mondo,
se lo consideriamo come mondo esterno. « Invero, il ricercato significato
del mondo, che mi sta di fronte unicamente come mia rappresentazione,
oppure del passaggio da esso, come mera rappresentazione del
soggetto conoscente, a quel ch'esso possa oltre a ciò ancora essere, non
si potrebbe mai trovare se l'indagatore stesso non fosse altro che il puro
soggetto conoscente - testa d'angelo alata, senza corpo -. Ma egli ha
invece radici in quel mondo, si trova nel mondo come individuo: cioè,
la sua conoscenza, che è il veicolo condizionatore di tutto il mondo
come rappresentazione, ha per intermediario un corpo, le cui affezioni
forniscono all'intelletto (come fu mostrato) il punto di partenza per
l'esame di quel mondo. Questo corpo è per il puro soggetto conoscente,
come tale, una rappresentazione uguale alle altre, un oggetto fra gli
oggetti: i movimenti e gli atti del corpo gli divengono noti per le stesse
vie per cui gli divengono note le modificazioni di ogni altro oggetto
visibile, e gli resterebbero ugualmente estranei ed incomprensibili se il
loro significato non gli venisse svelato da tutt'altra parte... Al soggetto
della conoscenza, che per la sua identità col corpo si presenta come
individuo, questo corpo è dato in due modi completamente distinti: una
volta come rappresentazione dall'aspetto comprensibile, come oggetto
fra oggetti, sottoposto alle leggi di questi; un'altra volta come ciò che a
ciascuno è direttamente noto sotto la parola volontà. Ogni vero atto
della sua volontà è subito e immancabilmente anche un movimento del
suo corpo: non può veramente volere l'atto, senza contemporaneamente
percepire ch'esso appare come movimento del corpo. L'atto volitivo
e l'azione del corpo non sono due fatti obiettivamente distinti riuniti
dal vincolo di causalità, non stanno fra loro in rapporto di causa ed
effetto; ma sono una stessa e identica cosa, data in due modi completamente
diversi: una volta in modo immediato e una volta nella visione
dell'intelletto ». Dopo queste delucidazioni, Schopenhauer si crede
autorizzato a trovare nel corpo dell'uomo l'« oggettivazione » della
volontà. Egli ritiene di sentire nelle azioni del corpo direttamente una
realtà, la cosa in sé in concreto. Contro queste conclusioni si deve obiettare
che per noi le azioni del nostro corpo arrivano alla coscienza
solo come autopercezioni e come tali non presuppongono nulla di altre
percezioni. Se noi vogliamo conoscere la loro essenza, non possiamo
farlo che per mezzo del pensiero, cioè incorporandole nel sistema ideale
dei nostri concetti.

Profondamente radicata nella coscienza dell'uomo ingenuo è l'idea
che il pensare sia astratto, senza alcun contenuto concreto, e che possa
tutt'al più fornire una contro-immagine « ideale » dell'unità universale,
ma non questa stessa. Chi giudica cosi non ha mai compreso chiaramente
che cosa sia la percezione senza il concetto. Guardiamo questo
mondo della percezione: quale semplice posizione nello spazio e successione
nel tempo, ci appare come un aggregato di singole cose senza
nesso. Nessuna delle cose, che entrano od escono dalla scena, ha alcunché
da fare coll'altra, il mondo è una molteplicità di oggetti di uguale
valore. Nessuno ha una parte più importante dell'altro nel congegno
del mondo. Per capire che questo o quel fatto ha maggiore importanza
degli altri, dobbiamo interrogare il nostro pensare. Se questo non
funziona, l'organo rudimentale del corpo di un animale, che non ha
importanza per la sua vita, ci appare dello stesso valore dell'organo che
ha la più grande importanza. I singoli fatti acquistano importanza per
sé e per le altre parti del mondo, quando il pensare tira le sue fila da
essere ad essere. Questa attività del pensare è un'attività piena di contenuto.
Ché solo grazie a un contenuto ben determinato e concreto posso
sapere perché la chiocciola si trovi sopra un gradino di organizzazione
più basso del leone. La sola vista, la sola percezione non mi dà
alcun contenuto che possa ammaestrarmi riguardo alla perfezione
maggiore o minore di un organismo.
Questo contenuto è portato verso la percezione dal pensare, che lo
attinge al mondo dei concetti e delle idee. In contrapposizione al contenuto
della percezione che ci è dato dall'esterno, il contenuto del pensare
appare nell'interno. La forma in cui da principio appare, la chiameremo
intuizione. È, rispetto al contenuto del pensiero, ciò che l'osservazione
è per la percezione. Intuizione e osservazione sono le origini
della nostra conoscenza. Di fronte a una cosa del mondo osservata
noi rimaniamo estranei fino a che nel nostro interno non abbiamo la
corrispondente intuizione la quale completi la realtà fornendoci quella
parte che manca nella percezione. Chi non ha la capacità di trovare le
intuizioni corrispondenti alle cose, non ha accesso alla piena realtà.
Come chi ha acromatopsia vede solo differenza di luminosità ma non
qualità di colori, così chi ha mancanza d'intuizione può osservare solo
frammenti sconnessi di percezione .
Spiegare una cosa, render comprensibile una cosa, non vuol dire
altro se non ricollocarla in quel complesso da cui la suddescritta disposizione
della nostra organizzazione l'aveva tolta. Cose staccate dal resto
del mondo non ve ne sono. Ogni separazione ha solo valore soggettivo
per la nostra organizzazione. L'insieme del mondo si scompone
per noi in sopra e sotto, prima e dopo, causa ed effetto, cosa e rappresentazione,
materia ed energia, oggetto e soggetto, ecc. Ciò che nell'osservazione
ci si presenta sotto forma di cose singole, si riconnette però,
membro a membro, per mezzo del mondo coordinato e unitario delle
nostre intuizioni; per mezzo del pensare noi riconnettiamo in uno ciò
che avevamo separato per mezzo della percezione.
L'enigmaticità di un oggetto risiede nel suo isolamento. Ma questo
è provocato da noi, e, dentro il mondo dei concetti, può esser da noi
stessi revocato.
Tranne che per il pensare e per la percezione, niente ci è dato direttamente.


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 14/10/2012, 9:06 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
Messaggi: 99
(Cap 5 - 8° parte di 10)

Sorge ora la domanda: Qual è, sulla base di queste considerazioni,
il significato della percezione? Abbiamo bensì riconosciuto che
la dimostrazione, fornita dall'idealismo critico, della natura soggettiva
delle percezioni, non sta in piedi; ma l'insufficienza della dimostrazione
non autorizza a dire che la cosa in sé sia errata. L'idealismo critico
nella sua dimostrazione non procede dalla natura assoluta del pensare,
ma si fonda sulla contraddizione interna del realismo primitivo. Come
si presenta la questione, quando è riconosciuto il carattere assoluto del
pensare?
Supponiamo che sorga nella mia coscienza una determinata percezione,
per es. quella del rosso. Questa percezione, se continuo ad osservare,
mi si mostra connessa con altre percezioni, per es. con quella
di una determinata figura, con certe percezioni calorifiche e tattili.
Questo assieme io lo qualifico per un oggetto del mondo dei sensi.
Posso ora domandarmi: « Oltre a quanto ho citato, che cosa si trova
ancora in quella porzione di spazio nel quale mi appaiono le nominate
percezioni? ». Troverò in quella porzione di spazio ancora processi
meccanici chimici, ecc. Vado oltre, ed esamino i processi che trovo
lungo la strada fra l'oggetto e il mio organo di senso. Troverò dei processi
di moto in un mezzo elastico, che per loro essenza non hanno
assolutamente nulla in comune colle percezioni originarie. Uguale risultato
ottengo, se esamino le ulteriori trasmissioni dagli organi di senso
al cervello. In ciascuno di questi campi, io faccio nuove percezioni -
ma quel che s'intesse come mezzo di collegamento, entro tutte queste
percezioni, separate spazialmente e cronologicamente, e le riunisce
insieme, è il pensare. Le vibrazioni dell'aria che trasmettono il suono
mi sono date come percezioni proprio come il suono stesso: soltanto il
pensare raggruppa tutte queste percezioni e mostra i loro rispettivi rapporti.
Non possiamo dire che, oltre a quanto è direttamente percepito,
vi sia altra cosa, se non i nessi ideali (scopribili per mezzo del pensare)
fra le percezioni. Quella, relazione fra oggetto della percezione e soggetto
della percezione, che va al di là della percezione stessa, è dunque
puramente ideale, cioè esprimibile solo per mezzo di concetti. Solo nel
caso ch'io potessi percepire in qual modo l'oggetto della percezione
afferra il soggetto della medesima (o viceversa, se potessi osservare
l'edificazione che il soggetto fa della risultante delle percezioni), sarebbe
possibile parlare come fanno la fisiologia moderna e l'idealismo
critico che su essa si fonda. Nella loro concezione, si confonde un rapporto
ideale (dell'oggetto col soggetto) con un processo del quale si
potrebbe parlare solo se fosse percepibile. La proposizione « Niente
colori senza occhio capace di vedere i colori » non può significare che
l'occhio produce i colori, ma semplicemente che esiste una connessione
ideale, conoscibile per mezzo del pensare, fra 1a percezione « colore
» e la percezione « occhio ». La scienza empirica dovrà stabilire
come le proprietà dell'occhio e quelle dei colori si comportino fra loro,
per quali dispositivi l'organo della vista trasmetta la percezione dei
colori, ecc. Io posso seguire il modo in cui una percezione segue un'altra,
vedere i rapporti spaziali che ha con altre, e dare poi a ciò un'espressione
concettuale; ma non posso percepire come una percezione
sorge dall'impercepibile. Tutti i tentativi per trovare fra le percezioni
altri rapporti che non siano quelli del pensare, devono necessariamente
fallire.
Che cosa è dunque la percezione? La domanda, posta così in generale,
è assurda. La percezione sorge sempre perfettamente determinata,
come un contenuto concreto. Questo contenuto è dato direttamente e si
esaurisce nel dato. Riguardo a questo dato si può solo domandare che
cosa esso è al di fuori della percezione, cioè per il pensare. La domanda
« che cosa è la percezione? » può quindi solo riferirsi alla intuizione
concettuale che le corrisponde. Da questo punto di vista, la questione
della soggettività della percezione, nel senso dell'idealismo critico, non
si può affatto porre. Soggettivo si può chiamare solo ciò che vien percepito
come appartenente al soggetto. Il far da nesso fra il soggettivo e
l'oggettivo non può spettare a nessun processo reale (reale in senso
primitivo), cioè a nessun divenire percepibile, ma solo al pensare. Per
noi è dunque oggettivo ciò che per la percezione appare posto al di
fuori del soggetto della percezione.


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 14/10/2012, 9:08 

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(Cap 5 - 9° parte di 10)

Il soggetto della mia percezione
rimane per me percepibile quando la tavola, che in questo momento mi
sta dinanzi, sarà sparita dal campo della mia osservazione. L'osservazione
della tavola ha prodotto in me una modificazione, parimenti permanente.
Io conservo la capacità di poter produrre più tardi un'immagine
della tavola; questa capacità rimane unita a me. La psicologia
chiama quest'immagine « rappresentazione mnemonica ». È però l'unica
cosa che con diritto, si possa chiamare rappresentazione della tavola.
Corrisponde infatti alla modificazione percepibile del mio proprio
stato, causata dalla presenza della tavola nel mio campo visivo. Non è
la modificazione di un « io in sé » posto dietro al soggetto della percezione,
ma la modificazione dello stesso soggetto percepibile. La rappresentazione
è dunque una percezione soggettiva in contrapposto alla
percezione oggettiva, in presenza di un oggetto sull'orizzonte della
percezione. La confusione fra la percezione soggettiva e quella oggettiva
porta all'equivoco dell'idealismo, che il mondo sia una mia rappresentazione.
Bisognerà ora anzi tutto determinare meglio il concetto di rappresentazione.
Ciò che finora abbiamo esposto riguardo ad essa non è il
suo concetto; abbiamo soltanto mostrato la via per scoprire dove essa
si trova nel campo della percezione. Il concetto preciso di rappresentazione
ci renderà anche possibile d'acquistare una soddisfacente visione
dei rapporti fra rappresentazione e oggetto. E questo ci porterà poi al di
là dei confini ove il rapporto fra soggetto umano e oggetto appartenente
al mondo passa, dal campo puramente concettuale della conoscenza,
giù nella vita concreta individuale. Quando sapremo che cosa dobbiamo
pensare del mondo, ci sarà anche più facile prendere in esso una
posizione giusta. Potremo svolgere in pieno la nostra attività, solo
quando conosceremo l'oggetto posto nel mondo, al quale la dedichiamo.


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 Oggetto del messaggio: Re: Cap 5
Messaggio da leggereInviato: 14/10/2012, 9:09 

Iscritto il: 19/08/2012, 9:35
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(Cap 5 - 10° parte di 10)
(qua termina il testo di Steiner, intervallato da chi volesse agganciarsi ad esso per le proprie riflessioni.
Al di sotto di questo, si aprono interventi "generali" sugli argomenti del capitolo in questione)


AGGIUNTA ALLA SECONDA EDIZIONE (1918)
La concezione che qui si è indicata può essere considerata quella a
cui l'uomo viene a tutta prima naturalmente portato, quando comincia a
riflettere sui suoi rapporti col mondo. Egli si vede allora irretito in una
tessitura mentale di pensieri, che gli si scioglie mentre la forma. Ed è
una tessitura di pensieri per la quale non si è fatto tutto quanto è necessario
fare nei suoi riguardi, quando la si è semplicemente confutata
teoricamente. Occorre viverla, per trovare la via di uscita grazie al riconoscimento
dell'errore a cui essa conduce. Essa deve trovare posto in
una disamina dei rapporti fra l'uomo e il mondo non già perché si vogliono
confutare altre concezioni che a parer nostro considerano questi
rapporti in modo errato, ma perché occorre sapere a quale confusione
può sempre condurre ogni prima riflessione su quei rapporti. Quel che
bisogna arrivare a vedere, è come si giunga a confutare se stessi in
ordine a questa prima riflessione. È da questo punto di vista che bisogna
intendere le considerazioni fatte più sopra.
Chi vuole elaborarsi una concezione dei rapporti fra l'uomo e il
mondo, acquista la coscienza ch'egli stabilisce per lo meno una parte di
questi rapporti col farsi delle rappresentazioni delle cose e dei processi
del mondo. Da ciò, il suo sguardo viene distolto da quanto sta fuori,
nel mondo, e diretto verso il suo mondo interiore, verso la sua vita di
rappresentazioni. Egli comincia a dirsi: io non posso aver rapporti con
cosa o con processo alcuno, senza che sorga in me una rappresentazione.
Dall'osservazione di questo fatto non è che un passo al convincimento
: noi non sperimentiamo altro che le nostre rappresentazioni e
sappiamo di un mondo esteriore solo in quanto esso è come rappresentazione
in noi. Raggiunto questo convincimento, è abbandonato il punto
di vista primitivo sulla realtà, che l'uomo ha prima di cominciare a
riflettere sui suoi rapporti col mondo, e secondo il quale egli credeva di
aver a che fare con le cose reali. Da questo punto di vista lo allontana
la riflessione su se stesso: la quale non gli consente di guardare a una
realtà, quale la coscienza crede di aver dinanzi a sé, ma gli permette
soltanto di guardare alle sue rappresentazioni. Queste si insinuano fra
il suo proprio essere e un mondo più o meno reale, quale il punto di
vista primitivo crede di poter affermare. L'uomo non può più guardare
attraverso l'ormai frappostosi mondo di rappresentazioni a una realtà
siffatta, e deve riconoscere d'essere cieco ad essa. Così sorge l'idea di
una « cosa in sé » irraggiungibile dalla conoscenza. Fintantoché si rimane
fermi alla considerazione del rapporto, nel quale per via della sua
vita di rappresentazioni l'uomo sembra essersi messo col mondo, non
si riesce a sfuggire a questa tessitura di pensiero. Non è possibile di
rimanere al punto di vista primitivo sulla realtà, a meno di volersi artatamente
chiudere all'impulso verso la conoscenza. L'esistenza di questo
impulso verso la conoscenza dei rapporti tra l'uomo e il mondo mostra
che il punto di vista primitivo vada abbandonato. Se quest'ultimo infatti
fosse capace di darci qualcosa che si potesse accettare come verità,
non si sentirebbe quell'impulso. Ma non si giunge a qualcos'altro che si
possa accettare come verità, se, abbandonato il punto di vista primitivo,
si conserva tuttavia inavvertitamente il modo di pensare che esso
impone. Si cade in simile errore, quando si dice: io sperimento soltanto
le mie rappresentazioni, e mentre credo di avere a che fare con cose
reali, ho invece solamente coscienza delle mie rappresentazioni di cose
reali; debbo perciò ritenere che solo fuori della sfera della mia coscienza
esistono cose veramente reali, « cose in sé », delle quali non so
proprio nulla per via immediata e che in qualche modo vengono a me
ed esercitano su di me un'influenza, per cui sorge in me il mio mondo
di rappresentazioni. Chi pensa a questo modo, non fa che aggiungere
in pensieri un altro mondo a quello che gli sta dinanzi; ma di fronte a
quest'altro mondo dovrebbe ricominciare da capo il lavoro del suo pensiero.
Perché così, nei suoi rapporti con l'essere dell'uomo, la sconosciuta
« cosa in sé » non viene pensata affatto diversamente dalla cosa
conosciuta secondo il punto di vista primitivo della realtà. Alla confusione
a cui si giunge, in ordine a questo punto di vista, con la riflessione
critica, si sfugge soltanto se si osserva, che entro ciò, che si può
sperimentare e percepire interiormente in se stessi ed esteriormente nel
mondo, esiste qualcosa, che non può cadere nella fatalità che la rappresentazione
si frapponga tra i processi esteriori e l'uomo che li contempla.
E questo è il pensare. Di fronte al pensare l'uomo può rimanere nel
punto di vista primitivo; e se non vi rimane, è soltanto perché ha rilevato
che per tutto il resto deve abbandonarlo, senza accorgersi che il
modo di vedere così acquisito non è applicabile al pensare. Se se ne
accorge, si apre la via all'altra constatazione, che nel pensare e per
mezzo del pensare, deve conoscersi ciò, a cui l'uomo sembra rendersi
cieco, quando frappone la vita delle rappresentazioni tra il mondo e sé.
All'autore di questo libro, da parte di persona da lui molto stimata,
è stata fatta l'obiezione, che con questa considerazione sul pensare egli
rimane fermo a un realismo primitivo del pensare, quale esso si presenta
a chi reputa essere il mondo reale tutt'uno col mondo rappresentato.
Ma l'autore di queste considerazioni crede di avere, proprio in esse,
dimostrato, che il valore di questo realismo primitivo per il pensare
risulta necessariamente alla spassionata osservazione di questo, mentre
la conoscenza della vera natura del pensare porta a superare il realismo
primitivo in tutti gli altri campi dove non può valere.


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